Non si direbbe, ma il 2012 è stato davvero un anno buono per gli investitori, in particolare per gli obbligazionisti: la corsa al rialzo dei bond governativi non si è arrestata e i titoli corporate investment grade e high yield promettono rendimenti eccellenti. Anche le principali piazze azionarie dovrebbero chiudere l’anno in territorio positivo.
I guadagni generalizzati sui mercati azionari e obbligazionari globali sono stati realizzati in un contesto macroeconomico ancora complesso. Molti dei problemi sottolineati lo scorso anno – doppia recessione, crescente indebitamento nei Paesi sviluppati e rischio di mosse politiche errate a livello mondiale – non solo non hanno trovato soluzione ma sono diventati in taluni casi motivi di forte preoccupazione. Ma qualche buona notizia c’è e constatiamo con piacere i progressi compiuti da alcune regioni del mondo.
Che cosa ha in serbo il 2013 per i mercati finanziari? Nel nostro ultimo Panoramic Outlook, Jim formula le sue previsioni macroeconomiche e di mercato per l’anno che sta per iniziare.
Buona lettura!
La decisione manifestata recentemente dalla Federal Reserve di cambiare l’approccio alla politica monetaria degli Stati Uniti, ridimensionando l’importanza del target d’inflazione, è solo l’ultimo passo del percorso sempre più accelerato intrapreso dalle autorità monetarie mondiali. In un mondo in cui i tassi di disoccupazione sono decisamente superiori a quello che chiunque considererebbe un livello naturale, oltrepassando in molti Paesi la soglia del 10%, l’esigenza della crescita è molto più pressante del timore di non rispettare il target d’inflazione del 2%. Così, all’ultima riunione del FOMC, la Fed ha deciso di considerare tollerabile un tasso d’inflazione fino al 2,5%, per lo meno finché la disoccupazione sarà troppo alta (oltre il 6,5%). Il testo integrale delle dichiarazioni della Fed è disponibile sul sito.
La scelta delle autorità monetarie mondiali di discostarsi dal vecchio target d’inflazione del 2% ci sembra un vero e proprio “cambio di regime delle banche centrali”, di cui abbiamo parlato sul nostro blog già in marzo. Vale la pena di riproporvi il grafico presentato allora.
Il grafico dell’FMI mostra come, nel periodo successivo alla nomina di Paul Volker alla Fed nel 1979 (linea arancione), le autorità monetarie mantennero i tassi d’interesse superiori al tasso d’inflazione (per reazione ai danni causati dalle spinte inflazionistiche degli anni Settanta). L’effetto fu una costante flessione del tasso di inflazione. E non si parlava d’altro che di tassi “reali” elevati e di inflazione (target d’inflazione, Relazione sull’inflazione della Banca d’Inghilterra, banche centrali indipendenti). È stato un trentennio (tutto sommato!) eccezionale per gli investimenti in titoli di Stato, i cui rendimenti calavano in risposta alla credibilità della lotta all’inflazione. Al grafico dell’FMI ho aggiunto un’altra linea (in blu), che illustra la strategia adottata dalle banche centrali dopo il caso Lehman Brothers e la crisi del credito, seguita dalla crisi del debito sovrano. Tutta un’altra storia: rendimenti reali fortemente negativi e tassi d’interesse nominali prossimi allo zero in gran parte dei Paesi avanzati, ma un’inflazione superiore al 2%. Si tratta di una politica voluta dalle banche centrali – i tassi reali negativi servono a rendere appetibile il prendere denaro in prestito per investiree stimulare, dunque, lacrescita (e avvantaggiando i consumatori indebitati), oltre che a incoraggiare una maggiore propensione al rischio (per aumentare i rendimenti, i detentori di titoli di Stato acquistano obbligazioni corporate, gli investitori investment grade passano all’high yield e così via).
I tassi reali negativi hanno anche un altro effetto, di cui parleremo meglio un’altra volta – la riduzione del debito per i governi prossimi al fallimento. Ci sono pochi modi per ridurre il peso del debito: una crescita reale sostenuta (che non sembra ipotizzabile nel futuro immediato), l’austerità (dagli effetti non dimostrati e probabilmente anche controproducente, per quanto alcuni citino il Canada e la Svezia come esempi positivi in questo senso), il default (che si renderà necessario per alcune economie dell’Eurozona senza una svalutazione monetaria) e l’inflazione. È forse quest’ultima la via percorribile e, come si capisce osservando la linea rossa del grafico, è il modo in cui le economie occidentali sono riuscite a ridurre i debiti bellici dopo la seconda guerra mondiale.
Non crediamo certo che i dirigenti delle banche centrali e i ministri delle finanze se ne stiano in qualche chalet sulle Alpi svizzere ad accarezzare un bel gatto bianco e a ghignare mentre tramano per generare altissimi livelli d’inflazione, ma questa sta diventando forse la (sola?) risposta pragmatica in un mondo ormai privo di altre risposte sul piano politico (non essendoci ulteriori margini di flessibilità fiscale). L’ultima decisione della Fed di occuparsi dell’inflazione E, allo stesso tempo, della disoccupazione, ci sembra assai interessante. Quando ero uno studente di economia, l’idea di poter scegliere TRA inflazione e disoccupazione non godeva di molto credito. Citerei – non vogliatemene – Wikipedia su questo concetto, noto come la Curva di Philips: “nel breve periodo è stato osservato un trade-off stabile tra inflazione e disoccupazione, che però non si manifesta nel lungo periodo”. Pertanto, l’idea di poter scegliere entrambe è probabilmente ancora meno plausibile.
Insomma, che cosa significa la manovra della Fed? Ascoltando la conferenza stampa di Bernanke di ieri sera sono stato colpito dal fatto che questo cambiamento di rotta della stessa Fed, passata dalla politica di “nessun aumento fino al 2015” a un’attenzione ai target numerici di inflazione e disoccupazione, possa effettivamente essere interpretato come un potenziale INASPRIMENTO della politica monetaria. Dopotutto, siamo molto ottimisti sul settore immobiliare USA come motore di crescita per il 2013 e il 2014, per cui, se tutto andrà per il meglio, la Fed potrebbe aumentare i tassi prima del 2015.
Per i vari motivi di cui sopra sono convinto che sia in atto un cambiamento di regime nelle banche centrali, ma credo valga la pena di elencare brevemente gli elementi a supporto della mia tesi. Eccoli in sintesi.
- Il livello dei tassi reali fissati dalle banche centrali: la prova più evidente è quella che si evince dallo stesso grafico. Le banche centrali raggiungono i target d’inflazione? Direi di no – negli ultimi 5 anni, ad esempio, la Banca d’Inghilterra ha mantenuto l’indice dei prezzi al consumo al di sotto del target del 2% solo per 6 mesi, mentre per gran parte del periodo in esame il CPI ha raggiunto il 3% (superando a un certo punto persino il 5%!). Stando ai dati più recenti, Regno Unito, Eurozona e USA registrano tutti tassi reali negativi pari almeno al -1,75%. Le banche centrali occidentali stanno persino considerando l’ipotesi di fissare tassi d’interesse NOMINALI negativi. Fra le grandi economie, in questo momento solo il Giappone ha tassi reali positivi, anche se a nostro parere la situazione potrebbe subire un drastico cambiamento, come spiegheremo di seguito.
- Il nuovo orientamento degli USA su un duplice mandato: dopo trent’anni di inflation targeting, da circa un anno a questa parte la Fed ha un nuovo obiettivo. Il primo a ventilare il concetto di target di disoccupazione è stato Charles Evans, della Fed di Chicago, seguito da Janet Yellan (probabile successore di Bernanke) della Fed di San Francisco, fino alle dichiarazioni di ieri sera. Per Bernanke è stato come sfondare una porta aperta, considerando che nella sua precedente carriera accademica aveva scritto quanto segue: date un occhio al prossimo punto.
- Target d’inflazione del 4% proposto da Bernanke per il Giappone: nel documento intitolato “La politica monetaria giapponese: un caso di paralisi auto-indotta”, scritto a Princeton nel 1999, Bernanke ipotizzava un obiettivo di inflazione tra il 3% e il 4% come soluzione per l’economia giapponese, colpita dallo scoppio di una bolla immobiliare, con un settore bancario in crisi, una crescita debole e pressioni deflazionistiche. Un quadro simile a quello degli USA oggi: per quale motivo, quindi, Bernanke non dovrebbe considerarla una strada giusta anche per la Fed?
- La posizione più accomodante di Mervyn King rispetto al target d’inflazione: sono convinto che i fatti contino più delle parole, e l’assenza di un effettivo inflation targeting nel Regno Unito negli ultimi 5 anni parla da sé, ma non avevo mai sentito il Governatore esprimersi con toni così accomodanti. Nel discorso tenuto in ottobre, dal titolo “Vent’anni di inflation targeting ”, King ha affermato: “in alcune circostanze può essere opportuno abbandonare temporaneamente il target d’inflazione al fine di attenuare il rischio di una crisi finanziaria”.
- Il nuovo Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney parla di un nuovo regime che ha come obiettivo il PIL nominale anziché solo l’inflazione: nel discorso tenuto questa settimana alla CFA Society of Toronto, Carney (che assumerà il comando della BoE l’anno prossimo) ha suggerito che quando i tassi di riferimento si avvicinano allo 0% (il cosiddetto “zero bound”), potrebbe essere più efficace puntare alla crescita nominale che ai tassi d’inflazione. Carney è stato forse il primo responsabile di una banca centrale a utilizzare l’espressione “cambio di regime”. “Quando si sceglie come target il PIL nominale, non è possibile mettere una pietra sopra al passato e la banca centrale è obbligata a recuperare quanto non ha fatto in passato”. Naturalmente, puntare al PIL nominale è anche un sistema molto efficace per ridurre i livelli di indebitamento dell’economia.
- Il cambio di regime del Giappone, il cosiddetto “Abe Trade”: questo fine settimana il Paese va alle urne e il candidato favorito ad assumere la carica di Primo Ministro è il leader dell’opposizione Shinzo Abe (LDP). Ma il Giappone deve ancora recuperare il crollo di qualche decennio fa e Abe intende perseguire aggressivamente la crescita. Con una deflazione dello 0,4% a dispetto del target d’inflazione dell’1% fissato dalla BoJ, Abe vorrebbe che la banca centrale facesse MOLTO di più, ad esempio alzando il target d’inflazione al 2% (o persino al 3%) e facendo tutto il possibile (ulteriori interventi sul piano monetario, allentamento quantitativo) per raggiungere l’obiettivo. Si tratta di un impegno programmatico che potrebbe attenuarsi in futuro – tuttavia, dopo il recente incontro con un membro della BoJ a Tokyo, ho la sensazione che un aumento del target d’inflazione del Paese sia inevitabile.
- Europa: è più difficile riscontrare prove evidenti. Tuttavia, dopo le dimissioni – nel 2011 – di due falchi come i tedeschi Axel Weber e Juergen Stark (“È noto a tutti che non sono un convinto fautore di questi acquisti (di bond)” – Stark), la BCE ha mostrato una maggiore apertura all’ espansione del bilancio (LTRO, SMP, OMT). E forse anche a un allentamento quantitativo più “tradizionale” tra qualche tempo.
Insomma, a fronte di tutti questi elementi che dimostrano come le autorità abbiano cambiato il loro modo di pensare, e di agire, sull’inflazione, ci si aspetterebbe una reazione negativa da parte dei mercati obbligazionari, giusto? Se Bernanke considera il 4% un livello d’inflazione adeguato per gli USA, sareste disposti a prestare il vostro denaro al governo per i prossimi 5 anni a un tasso dello 0,65%? Inoltre, con l’avvento di Mark Carney alla presidenza della BoE il prossimo anno, è ipotizzabile che anche i tassi di inflazione breakeven (ossia le previsioni d’inflazione del mercato), superino il target d’inflazione del 2% nei prossimi anni? Attualmente i rendimenti dei titoli del Tesoro quinquennali sono ancora inferiori all’1% (grazie anche agli acquisti di titoli annunciati ieri sera nell’ambito del QE) e il tasso di inflazione breakeven britannico in base all’indice CPI è nettamente inferiore al target d’inflazione del 2%. In entrambi i casi, si ha la sensazione che gli interventi statali in questi mercati (repressione finanziaria attraverso il QE, requisiti patrimoniali ecc.) manterranno bassi i rendimenti anche a fronte di tassi d’inflazione elevati. Si tratta, peraltro, di un’assoluta necessità – con il 50% del mercato dei Treasury in scadenza nei prossimi 3 anni o giù di lì, se i rendimenti dovessero crescere, i governi occidentali, il cui livello di solvibilità è comunque marginale, sarebbero presto condannati al fallimento.
Anthony è appena tornato da un viaggio a Singapore dove ha parlato con diversi investitori per tastare il polso della situazione. Grazie alla videocamera che ha portato sempre con sé, Anthony ha potuto condividere su Bond Vigilantes quanto imparato su questa città-Stato dell’Asia, la sua economia e i suoi mercati obbligazionari.
Nonostante le modeste dimensioni geografiche, Singapore è una delle economie più prospere al mondo, sostenuta da forti legami commerciali internazionali. Il Paese ha adottato un modello economico misto in cui le politiche di libero mercato convivono con l’intervento delle autorità monetarie locali in ambito macroeconomico.
Forte di un rating sovrano AAA e di una posizione fiscale unica, oltre che di un mercato finanziario in rapida evoluzione e un solido sistema bancario, Singapore è una delle piazze più aperte e competitive del globo. Viene da chiedersi se questo piccolo Stato, che vanta il terzo PIL pro capite mondiale, non possa insegnare qualcosa in tema di economia ai suoi vicini del sud-est asiatico.
Come si evince dal grafico sottostante, negli ultimi mesi le emissioni societarie sono andate alla grande. Questo boom di transazioni in cui l’acquirente (investitore) incontra il venditore (emittente) prova che il mercato primario è in buona salute e che la liquidità abbonda. Tuttavia, fin dal periodo dalla stretta creditizia si fa un gran parlare della diminuzione della liquidità nel segmento corporate a causa della ridotta capacità degli intermediari di acquistare obbligazioni. Qual è la verità?
Dall’inizio della crisi, gli intermediari finanziari che forniscono liquidità immediata agli obbligazionisti hanno subito un forte stress. Perdite su titoli, una gestione più cauta e un capitale inferiore ma più oneroso hanno ridotto la quota di market making nei bilanci di tali enti. Lo si vede bene nel prossimo grafico, che riporta i dati della Federal Reserve sulle posizioni detenute dai maggiori dealer in titoli corporate con scadenza superiore a 1 anno.
Sulla base di tali dati alcuni osservatori sostengono che la capacità dei trader di assumere rischio è diminuita dell’80% circa, e che, di conseguenza, la liquidità del mercato corporate si è notevolmente ridotta, proprio perché è venuta meno un’importante fonte di capitale per gli investimenti. A noi sembra un modo semplicistico per spiegare agli investitori che cosa sta succedendo. Il prossimo grafico mostra un dato molto più rilevante rispetto alle dimensioni dei bilanci dei dealer, ovvero il volume storico effettivo delle negoziazioni sul mercato corporate secondario, un indicatore attendibile della liquidità reale anziché di quella ipotetica. In effetti il giro d’affari non è crollato dell’80% come le scorte degli intermediari, prova ne sia che i volumi giornalieri sono gli stessi del 2007. È inoltre interessante notare la riduzione della percentuale rappresentata dalle banche di investimento e dalle banche-ombra; è quindi probabile che le transazioni fra veri investitori finali siano notevolmente aumentate tanto in termini reali quanto in percentuale.
Nel 2007 i mercati erano estremamente liquidi. Prevalevano gli investitori con un orizzonte temporale breve che utilizzavano capitale di vigilanza a basso costo per assumere un enorme rischio di credito. Le operazioni venivano effettuate direttamente dalle banche di investimento per conto proprio o tramite depositi di titoli da vendere a veicoli come CDO e CLO dopo il lancio. Quest’attività è crollata. In un contesto più rigido per il capitale, le scorte di tali enti sono chiaramente diminuite, e di molto anche. Tuttavia, il market making e le operazioni sul mercato corporate restano un’importante fonte di reddito per gli intermediari finanziari. Nonostante il minor impiego di capitale, il volume complessivo degli scambi secondari è tornato ai livelli del 2007, vale a dire che c’è una maggiore efficienza e che il turnover unitario delle scorte è aumentato a dismisura, come sotto illustrato. La crisi finanziaria ha modificato la propensione al rischio e la capacità di banche e investitori di assumere rischi.
La crisi finanziaria ha anche comportato un significativo e fondamentale cambiamento nel funzionamento dei mercati finanziari. Il riciclo del capitale (basato sulla non corrispondenza del rischio assunto dalle banche che ha causato la crisi del credito) tramite depositi a breve per erogare finanziamenti a lungo termine che dominava la scena nel 2007 sta ora lasciando il posto a un sistema nuovo e (speriamo) più stabile in cui gli emittenti si finanziano sul mercato corporate. Le banche concedono sempre meno prestiti, e i mercati finanziari hanno tentato di ovviare al problema, prime fra tutte le piazze obbligazionarie. Dal momento che ai finanziamenti bancari si sono sostituiti prestiti obbligazionari con scadenze più lunghe, le discrepanze in termini di scadenze e il rischio di credito del sistema bancario si sono ridotti, in quanto assorbiti dagli obbligazionisti. L’investitore non solo riceve un premio per essersi assunto un rischio, ma deve anche calcolare il premio di liquidità da ricevere al di là del rischio di credito assunto e della scadenza.
Tale premio varierà nel corso del ciclo economico così come gli altri fattori che determinano il rendimento, ovvero tassi di interesse e di credito. Il premio aumenta quando i mercati del credito sono deboli e la liquidità scarseggia (come nell’autunno 2009), mentre diminuisce quando le prospettive sono buone e la liquidità abbonda (come nella primavera 2007); tutti gli investitori dovrebbero tenerne conto quando considerano questa asset class.
Occorre innanzitutto capire in quale fase del ciclo della liquidità ci troviamo e sapere che nel 2007 la liquidità perfetta e le ingenti scorte degli intermediari hanno portato al crollo del segmento corporate, mentre l’illiquidità dell’inverno 2008 ha creato una serie di opportunità per acquistare approfittando di premi di liquidità più elevati. Gli ultimi 5 anni ci hanno insegnato che, nel caso delle obbligazioni societarie, una situazione di liquidità perfetta può preludere a tempi peggiori che non un contesto di illiquidità.
La liquidità del mercato corporate è elevata o ai minimi storici? Sembra che i volumi giornalieri del mercato primario si attestino a livelli record, mentre quelli del mercato secondario, seppur cresciuti in misura minore, non siano poi così esigui come risulterebbe da una semplice analisi delle scorte degli intermediari. In un contesto finanziario così sensibile ai recenti sviluppi economici è difficile calcolare quale dovrebbe essere la liquidità media giornaliera. Tuttavia, la liquidità totale di tutte le transazioni, sia sul mercato primario che su quello secondario, suggerisce che il mercato corporate viene sempre più spesso preferito alle banche come veicolo di finanziamento di prima scelta.