Se il modello economico cinese cambia e la crescita rallenta, chi ci rimette?

Non è esattamente il titolo del documento dell’FMI di fine 2012 (che in realtà recitava “Crescita cinese trainata dagli investimenti: ripercussioni globali”), ma rende perfettamente l’idea.

Partiamo con una breve premessa. Molti di quelli che lo scorso anno non avrebbero scommesso sulla Cina oggi si dichiarano meno pessimisti o addirittura ottimisti, ovviamente alla luce del miglioramento osservato nei dati sull’economia locale e del conseguente rally delle piazze azionarie del Regno di Mezzo. Tuttavia non credo che statistiche più positive (sempre se credete alle statistiche) dovrebbero ispirare fiducia, anzi si potrebbe affermare il contrario. Probabilmente la ripresa della Cina è legata all’aumento di prestiti infruttiferi e inconcludenti favorito dal governo. Di fatto, la qualità della crescita cinese è sempre più scarsa e il tasso di espansione assolutamente insostenibile. E più grande è la bolla, più forte sarà il botto.

Questa settimana Ruchir Sharma di Morgan Stanley ha pubblicato un pezzo sul Wall Street Journal a proposito del debito cinese complessivo e dei privati, che ha superato il 200% del PIL, citando precedenti dichiarazioni dellaBanca dei Regolamenti Internazionali: “un’accelerazione del debito privato in percentuale del PIL del 6% rispetto al trend del decennio precedente è un campanello d’allarme di gravi difficoltà finanziarie. Attualmente il debito privato cinese in percentuale del PIL supera del 12% il trend precedente e si attesta al di sopra dei picchi massimi registrati prima delle crisi del credito che colpirono rispettivamente il Giappone nel 1989, la Corea nel 1997, gli Stati Uniti nel 2007 e la Spagna nel 2008”. Si veda il riferimento a questo e ad altri articoli nella valida sintesi sulla prossima micidiale sbornia creditizia della Cina su FT Alphaville.

Da tempo ormai l’FMI mette in guardia sulla bolla del credito cinese che mina la stabilità dei mercati finanziari globali, e a tal proposito lo studio del Fondo sulle ripercussioni a livello mondiale è una lettura davvero interessante. L’istituto stima che un punto percentuale di rallentamento degli investimenti cinesi corrisponde a una perdita dello 0,5-0,9% nell’espansione di economie appartenenti alla filiera della regione (Taiwan, Corea e Malaysia). Una sostanziale decelerazione della Cina penalizzerebbe probabilmente anche i produttori di materie prime quali il Cile e l’Arabia Saudita, mentre Paesi come il Canada e il Brasile registrerebbero “rallentamenti e perdite di produzione significativi”. Sarebbero inoltre “duramente colpiti i produttori di beni strumentali come la Germania e il Giappone”, e un anno dopo lo shock i prezzi delle commodity, soprattutto quelli dei metalli, potrebbero subire un calo fra lo 0,8% e il 2,2% dai livelli base per ogni punto percentuale di flessione degli investimenti cinesi.

Quale sarà dunque la correzione del tasso di crescita degli investimenti cinesi? Fra il 2002 e il 2011, gli investimenti fissi della Cina sono aumentati a un tasso annuo del 13,5% (un ritmo decisamente superiore al tasso di crescita del PIL nazionale): ciò significa che attualmente gli investimenti fissi rappresentano circa il 50% del PIL cinese. Nessuno Stato di grandi dimensioni ha mai sostenuto un tasso così elevato; dal 1960 gli unici Paesi in grado di mantenere un rapporto di oltre il 50% per almeno due anni consecutivi sono stati: la Repubblica del Congo (1960-61), il Botswana (1971-73), il Gabon (1974-77), la Mongolia (1981-87), il Kiribati (1982-83 e 1985-90), St. Kitts & Nevis (1988-90), il Lesotho (1989-97), la Guinea Equatoriale (1994-98 e 2000-01), il Bhutan (2001-04), l’Azerbaigian (2003-04), il Ciad (2002-03) e il Turkmenistan (2009-10).

A giudicare da altri Stati allo stesso stadio di sviluppo della Cina, un rapporto investimenti/PIL più ragionevole potrebbe essere attorno al 30-35%. Per raggiungere tale percentuale la crescita degli investimenti cinesi dovrebbe subire una netta flessione, sino al 4-6%, e se il rallentamento della Cina fosse più marcato del previsto, il tasso scenderebbe ulteriormente (volendo fare un confronto con altre due economie della regione dopo lo scoppio di una bolla: la crescita degli investimenti in Giappone è stata pressoché irrilevante dai primi anni ’90, in Corea ha registrato una media inferiore al 5% da metà anni ‘90). In base al modello dell’FMI, un calo della crescita degli investimenti cinesi dal 13,5% al 4,5% implicherebbe un impatto del 4-7,2% sul PIL di Paesi come Taiwan, Corea e Malaysia, e i prezzi di alcune commodity scenderebbero di quasi il 20%. Accidenti! E se vogliamo metterla giù ancora più dura, basti pensare che uno shock economico di tali dimensioni provocherebbe un’inversione dell’enorme flusso di investimenti nei mercati azionari e obbligazionari emergenti della regione in atto ormai da dieci anni, un’eventualità paventata più volte dall’FMI (si vedano pag. 70 e fig. 2.51 di questo report). Ecco come il ribilanciamento e il rallentamento dell’economia cinese può tradursi in una crisi dei mercati emergenti dell’Asia.

Infine, vale la pena dare uno sguardo a un grafico già utilizzato in unamia nota dello scorso anno che mostra cosa successe al PIL del Giappone quando, fra gli anni ’70 e ’80, il Paese passò da un’economia trainata dagli investimenti a una basata sui consumi (20 anni dopo accadde più o meno la stessa cosa in Thailandia e in Corea). Quando gli investimenti in percentuale del PIL diminuiscono, si riduce anche la crescita del PIL. Tutti concordano sul fatto che la Cina dovrebbe ridurre gli investimenti e aumentare i consumi, ma pochi ammettono che ciò comporterebbe un forte rallentamento della crescita del Paese.

Il valore e il reddito degli asset del fondo potrebbero diminuire così come aumentare, determinando movimenti al rialzo o al ribasso del valore dell’investimento. Possibile che non si riesca a recuperare l’importo iniziale investito. Le performance passate non sono indicative dei risultati futuri.

Mike Riddell

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