A settembre di quest’anno, il FOMC (Comitato di politica monetaria) ha colto di sorpresa mercati ed economisti con la decisione di rinviare il tapering, lasciando intatto il programma di acquisto di asset per 85 miliardi di dollari al mese. A tre mesi di distanza, l’esito della riunione di dicembre anticipato dal consenso è che la Fed non ridurrà il ritmo degli acquisti di titoli garantiti da ipoteche (MBS) o di Treasury. Il consenso ha già sbagliato in passato: i fatti lo smentiranno di nuovo domani? A nostro avviso, sarà una decisione meno scontata di quanti si aspettino in molti.
La Fed ha molte buone ragioni per ridurre lo stimolo molto lentamente. Innanzitutto, l’inflazione non rappresenta un problema, in quanto inferiore all’obiettivo e vicina a livelli estremamente bassi che non si vedevano da decenni. In secondo luogo, il tasso sui mutui a 30 anni è aumentato dal 3,5% di maggio a circa il 4,5% attuale, incidendo sulla capacità di acquisto delle abitazioni e generando già una contrazione di fatto della politica monetaria della Fed. Terzo, persistono i timori che il 2014 possa portare un ritorno della politica del rischio calcolato dominante alla fine di settembre, con il richiamo del Tesoro statunitense riguardo all’esigenza di innalzare il tetto del debito entro febbraio o inizio marzo per evitare il default. Infine, la Fed è ben lontana dal decretare un rialzo del tasso sui fondi federali.
Non c’è dubbio, dopo la decisione di settembre, che il tapering sia effettivamente legato ai dati e, in tal senso, che il quadro macroeconomico abbia rilevanza. Per fortuna, Ben Bernanke ha indicato, nel corso di una conferenza stampa di giugno, le variabili economiche che lui stesso e il FOMC prenderanno in considerazione. La Fed vuole vedere un miglioramento su base ampia di tre variabili economiche – l’occupazione, la crescita e l’inflazione – prima di ridurre l’entità degli acquisti di titoli.
La tabella riportata di seguito mostra che i dati sono migliorati su tutti i fronti. Il PIL annualizzato è più vigoroso, il tasso di disoccupazione è inferiore e l’inflazione dei prezzi al consumo (IPC) è limitata all’1,2%. Altri importanti indicatori anticipatori dell’economia, come l’indice ISM e la fiducia dei consumatori, sono a livelli più elevati mentre le condizioni di mercato sono sorprendentemente simili a quelle di tre mesi fa, con il rendimento decennale al 2,86%.
Dopo l’annuncio a sorpresa di settembre, crediamo che ogni riunione del FOMC da qui in poi sia il momento buono per la Fed per cominciare a ridurre il programma di acquisti di asset in una qualche misura, fino a raggiungere la neutralità del bilancio. Il ridimensionamento degli acquisti di titoli non equivale a una contrazione della politica monetaria: piuttosto lo leggiamo come un segnale positivo del fatto che le autorità giudicano l’economia statunitense finalmente in convalescenza, dopo la devastazione della crisi finanziaria. Come ho scritto in settembre, la politica sui tassi d’interesse è destinata
a rimanere decisamente accomodante ancora a lungo, anche dopo il conseguimento della neutralità di bilancio.
Alla luce degli sviluppi positivi degli ultimi tre mesi nell’economia statunitense, l’annuncio del FOMC di dicembre potrebbe includere a) una riduzione degli acquisti di asset di modesta entità e b) un ritocco della soglia del tasso di disoccupazione o un limite più basso per l’inflazione. In ogni modo, il momento del canto del cigno per l’allentamento quantitativo si sta avvicinando.
Il 2013 ha offerto un’altra iniezione di adrenalina, insieme alla performance, agli investitori che hanno puntato sul reddito fisso. Una rapida ondata di vendite ha spazzato i mercati emergenti appena prima dell’estate, mentre la Fed si dibatteva nel dilemma “tapering sì-tapering no” (andato avanti per oltre sei mesi). I Paesi europei periferici sono finalmente usciti dal tunnel della recessione, anche se preoccupa la disoccupazione ancora elevata. Parallelamente, i mercati ad alto rendimento mondiali hanno continuato a offrire performance brillanti, mentre il Giappone ha iniziato a sentire gli effetti della rivoluzione monetaria e fiscale senza precedenti avviata da Shinzō Abe.
In tutto ciò, è emerso con chiarezza un tema comune: finalmente sembra che le economie sviluppate stiano crescendo a un ritmo ragionevole. Con il ritorno della volatilità e delle correlazioni a livelli pre-crisi, la normalizzazione dei mercati appare sostanzialmente completa. Mentre l’intervento delle banche centrali (destinato a proseguire ancora per qualche tempo) è stato il mantra in un ambiente trainato dalla liquidità, il mondo si sta spostando di nuovo verso un modello incentrato sulla crescita. Gli Stati Uniti sono ben posizionati per guidare il branco, anche se gli alti livelli di debito in Europa continuano a limitare il margine di manovra dei governi intenzionati a dare sostegno alla ripresa attraverso lo stimolo fiscale. Tuttavia, arrivano buone notizie dal sistema bancario in via di risanamento e ormai convalescente, oltre che dal solido puntello garantito dall’atteggiamento chiaramente accomodante della BCE e del suo leader, Super Mario Draghi.
In questo contesto, molte asset class a reddito fisso hanno offerto rendimenti soddisfacenti. Ma quali sono state le migliori? I risultati sono sorprendenti. Chi l’avrebbe mai detto, a gennaio 2013, che insieme a un nuovo Papa argentino, alla Cina sulla Luna e a un salvataggio economico di Cipro, avremmo visto i “Bonos” spagnoli generare rendimenti totali superiori all’11% da inizio anno, per esempio? Diamo un’occhiata più da vicino ai titoli di Stato, alle obbligazioni societarie e alle valute principali rispetto al dollaro statunitense (tutti i dati di rendimento totale da inizio anno sono misurati dal 31 dicembre 2012 al 17 dicembre 2013 in valuta locale).
Titoli di Stato
I titoli governativi esenti da rischio hanno subito l’effetto penalizzante delle aspettative di rialzo dei tassi e dell’incertezza sul tapering. L’indice dei gilt britannici, con una duration media superiore a 9 anni, è stato il più colpito, seguito dai Treasury (duration di almeno 5 anni) e infine dai bund tedeschi, meno volatili (6 anni o più). Diversa la situazione in alcuni Paesi dell’Europa periferica, dove le emissioni governative greche hanno offerto rendimenti stratosferici, di oltre il 50%, seguiti dal debito sovrano spagnolo e italiano. Dopo la debacle di maggio, i titoli di Stato dei mercati emergenti in valuta forte (il cui andamento è misurato in genere dall’indice JPM EMBI) hanno subito un duro colpo e generato un rendimento negativo inferiore al 6%, nonostante il discreto rimbalzo registrato in autunno, mentre l’indice in valuta locale (JPM GBI-EM) sembra avviato a chiudere l’anno sostanzialmente piatto (se tradotto in dollari USA, risulta negativo di circa l’8%).
Dopo che i titoli indicizzati hanno perso il favore degli investitori nel 2012, a causa del crollo delle aspettative di inflazione e del tasso di inflazione effettivo molto basso in Europa e negli Stati Uniti, anche nel 2013 i mercati statunitensi, europei ed emergenti sono apparsi in difficoltà, mentre quello britannico sta per archiviare un risultato leggermente positivo, in parte ascrivibile alla decisione di mantenere il legame all’indice RPI dei prezzi al dettaglio, assunta qualche mese fa (qui è disponibile un post di Ben in proposito).
Obbligazioni societarie
Nel corso dell’anno le obbligazioni societarie hanno offerto un grado di valore notevole. Le aziende stanno beneficiando della ripresa su base ampia nel mondo sviluppato e del conseguente incremento della domanda di consumi (più consumi = ricavi più elevati per le imprese) e degli investimenti pubblici. La gestione prudente delle risorse finanziarie e dei bilanci da parte degli emittenti obbligazionari in media (soprattutto in Europa), le prospettive economiche in miglioramento, le indicazioni prospettiche sui tassi d’interesse e il contesto di bassa inflazione sono tutti fattori che hanno sostenuto la corsa delle obbligazioni societarie. I nomi attivi nel segmento high yield, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, sono stati fra i migliori nell’ambito del credito. Anche i finanziari sono andati molto bene, in particolare nell’area del debito subordinato, favoriti dal forte interesse degli investitori per i titoli ciclici e più remunerativi, ma anche dal processo generale di riduzione dell’indebitamento che avanza nella giusta direzione, verso la ristrutturazione dei bilanci.
Fra gli asset in particolare evidenza segnaliamo l’alto rendimento europeo (+9,9%), i finanziari subordinati europei e i bancari statunitensi high yield (+7,1% e +8,9% rispettivamente), oltre all’andamento complessivamente positivo delle emissioni societarie non finanziarie di categoria BBB in Europa (+4,4% a fronte del -0,8% negli Stati Uniti). Il debito societario dei mercati emergenti è rimasto in territorio negativo (-1,0%), mentre il segmento high yield ha registrato un progresso marginale (+1,1%).
Valute
Lo sviluppo maggiormente degno di nota, sul fronte delle valute principali, è stato lo scarso entusiasmo generale per il dollaro statunitense da parte degli investitori mondiali, probabilmente dovuto alle incertezze sul tapering e ai timori alimentati dal baratro fiscale e dal recente shutdown del governo negli Stati Uniti. L’indice del dollaro USA (DXY su Bloomberg) ha generato una performance piuttosto deludente del +0,4% da inizio anno. Bisogna fare una chiara distinzione fra due tendenze quest’anno: l’indice ha offerto rendimenti positivi di circa il 6% fra gennaio e inizio luglio, ma poi ha perso terreno nella seconda parte dell’anno (circa -5,6%) per via delle incertezze provocate dalla paralisi del governo e dalla decisione della Fed di mantenere una politica monetaria espansiva. Tuttavia, oggi l’economia statunitense sta crescendo, il deficit delle partite correnti è in calo, il Paese avanza verso l’indipendenza energetica e la politica della Fed è più chiara, dopo l’annuncio sul tapering del 18 dicembre: siamo fermamente convinti che il biglietto verde presenti un buon grado di valore e sia destinato a un recupero vigoroso.
Tra le valute del G10, l’euro e la sterlina britannica hanno guadagnato molto terreno sul dollaro negli ultimi mesi. Grazie agli sviluppi sorprendentemente positivi dell’economia, sia nel Regno Unito che nell’Eurozona, la sterlina e l’euro sono state fra le valute globali più performanti, tra marzo e dicembre. Il giudizio è ancora sospeso sulla sterlina britannica: il deficit delle partite correnti del terzo trimestre al 5,1% è il terzo peggiore della storia per il Regno Unito (e supera quello di Indonesia, India e Brasile). Questo dato suggerisce l’assenza di qualsiasi segnale di riequilibrio dell’economia britannica e indica che, allo stato attuale, la sostenibilità della ripresa nel Regno Unito non è neanche lontanamente paragonabile a quella statunitense.
Lo yen giapponese si è indebolito in misura significativa contro il dollaro USA (-15,4%), per effetto dei nuovi sforzi della Banca del Giappone per creare inflazione (e crescita nominale) nel Paese. Alcune valute dei mercati emergenti hanno evidenziato performance molto positive (è il caso di peso argentino, renminbi cinese, fiorino ungherese, zloty polacco e peso messicano), ma nella maggior parte dei casi, le divise della regione hanno sottoperformato il dollaro USA. A soffrire sono stati soprattutto il real brasiliano, la rupia indonesiana e il rand sudafricano (unica valuta con un rendimento inferiore a quello dello yen, alla data di questo post).
In conclusione, chi si sarebbe aspettato un andamento così interessante per le asset class a reddito fisso quest’anno? E cosa ci riserva il 2014? L’anno prossimo sarà negativo o positivo per i mercati finanziari e, in particolare, per il reddito fisso? Vi invitiamo a leggere il nostro ultimo Panoramic qui e a restare sintonizzati su questo blog; esplorate i nostri post recenti (questo di Ben, uno di Mike e qui un altro mio) e seguiteci anche nelle prossime settimane.
Prima di salutarvi, consentitemi una domanda sul calendario cinese. L’Anno del Serpente, che è iniziato il 10 febbraio 2013, si concluderà alla fine di gennaio 2014. Nello zodiaco cinese, il serpente rappresenta i concetti di malignità e mistero, ma anche acume, intuizione e nuovi inizi. Ci trovate qualche riscontro per il 2013? L’anno del Cavallo inizierà il 31 gennaio 2014. Il cavallo è considerato energico, vivace, generoso, intelligente e abile. Sarà un indizio? Un augurio di fortuna e felicità per il 2014!
L’altro giorno mi sono imbattuto in un articolo in cui la Bundesbank coglie l’occasione delle festività per chiedersi se tutti questi saldi natalizi siano destinati a diventare un fenomeno permanente per l’Eurozona. “Niente deflazione in vista” (in tedesco) conclude che difficilmente l’Eurozona vedrà un calo continuato dei prezzi (ossia una deflazione). La Bundesbank non manca però di rilevare qualche analogia tra oggi e gli anni ’30, ovvero l’ultimo periodo di deflazione in Germania, attribuendo la tendenza disinflazionistica attuale nell’Eurozona all’austerità imposta alle economie periferiche. Colpisce come questa argomentazione offra l’opportunità di fare qualche confronto storico. All’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, le politiche restrittive del cancelliere Brüning (adottate con decreti di emergenza), in risposta alla crisi economica globale e alla carenza di competitività percepita dei prodotti tedeschi, comprendevano pesanti tagli salariali e di posti di lavoro nel settore pubblico, riduzione delle pensioni e delle indennità, oltre a un aumento delle imposte sui redditi. Queste politiche segnarono un periodo di grave declino economico e deflazione, destinato ad avere conseguenze storiche di ampia portata.
Tuttavia, la Bundesbank sembra confortata dal fatto che le esperienze deflazionistiche nella periferia non sono paragonabili per entità a quella della Germania degli anni ’30, né sufficienti a trascinare l’intera Eurozona in una spirale deflazionistica, almeno finora. La banca centrale tedesca si aspetta che le misure di austerità produrranno presto gli effetti positivi sperati sulla competitività economica dei Paesi periferici, ripagando gli sforzi con il ritorno a una modesta espansione dell’economia nel 2014 e nel 2015. Sebbene gli alti tassi di disoccupazione nell’Eurozona, soprattutto in periferia, siano destinati a frenare ancora qualsiasi pressione inflativa, l’articolo conclude che la ripartenza dell’attività economica riuscirà ad arginare le spinte al ribasso sul costo della vita. In altre parole, il peggio è passato ed è per questo che non c’è nessuna deflazione in vista. Sebastian Galy di SoGen sottolinea criticamente che la Bundesbank basa gran parte della sua analisi sul presupposto di una forte correlazione positiva tra la crescita e l’inflazione, che storicamente non è sempre stata evidente e non sembra compatibile con la tendenza di disinfloccupazione che sta emergendo negli Stati Uniti.
La Bundesbank considera peraltro il rischio di deflazione limitato all’Eurozona, dato che la risposta di politica monetaria della BCE è molto diversa da quella adottata negli anni ’30. Allora, la svolta dell’economia in senso negativo fu aggravata dalla politica monetaria messa in campo dalla Reichsbank. Come mostra il grafico qui sotto, il livello molto alto dei tassi d’interesse mantenuto dalla banca centrale portò a costi di finanziamento insostenibili nell’economia reale, comprimendo ancora di più l’espansione del credito. I motivi sottesi a questo approccio erano certamente molto complessi, ma senza addentrarsi troppo in un dibattito accademico, sembra possibile che lo spazio di manovra tedesco sia stato limitato dal Piano Young e che lo shock di iperinflazione degli anni ’20 avesse creato una barriera psicologica all’allentamento della politica monetaria. L’articolo della Bundesbank sottolinea che la risposta monetaria odierna della BCE è molto diversa. L’attuale tasso di rifinanziamento storicamente basso, pari a solo lo 0,25%, riflette l’approccio di politica monetaria decisamente espansivo di Francoforte in reazione alla crisi dell’Eurozona e fornisce quindi un altro puntello alla stabilità dei prezzi, riducendo il rischio di deflazione.
Credo però che la Bundesbank non tenga abbastanza conto della psicologia della deflazione. Gli autori accennano al concetto di aspettative di inflazione e al relativo impatto sui comportamenti di consumo (se ti aspetti che i prezzi scendano, rimanderai gli acquisti esercitando un’ulteriore pressione al ribasso sui prezzi), ma non entrano molto nel dettaglio. Come è emerso dall’ultimo Sondaggio M&G YouGov sulle aspettative di inflazione, tali aspettative erano ancora ben ancorate in novembre, ma in una tendenza al declino in tutta Europa, e sarà interessante vedere come cambieranno alla luce dei dati recenti, che hanno evidenziato un declino dei salari reali nel terzo trimestre non solo nei Paesi periferici, ma anche per i lavoratori tedeschi – per la prima volta dal 2009. Questo fenomeno è certamente una tendenza sorprendente, se non preoccupante, per quanto riguarda sia la disinflazione, sia degli sforzi di riequilibrio dell’Eurozona.
La stretta sui consumatori britannici esercitata dai salari reali in calo è stata vista come una delle cause principali della ripresa economica anemica (fino a poco tempo fa). La responsabilità è stata attribuita in larga misura ai datori di lavoro: ma sono davvero loro i colpevoli? Hanno deliberatamente tenuto gli utili al di sotto dell’inflazione al fine di dare impulso alla redditività, o questo è stato un esito non pianificato degli shock inflativi?
Secondo i dati Eurostat relativi alla crescita dei salari nominali nel Regno Unito dall’inizio della crisi del credito, solo negli ultimi due anni circa l’espansione delle remunerazioni in termini nominali è stata ampiamente inferiore all’obiettivo di inflazione del 2% fissato dalla Banca d’Inghilterra. La crescita dei salari nominali è stata del 6,1% nel 2008, dell’1,8 nel 2009, del 3,6% nel 2010 e del 2,1% nel 2011.
Eppure, in quegli stessi anni, la produttività del lavoro per ora lavorata (sempre dati Eurostat) è stata terribile: -1,2% nel 2008, -2,3% nel 2009, +1,1% nel 2010 e +0,7% nel 2011. In altre parole, sembra che le imprese abbiano tentato, a priori, di remunerare i dipendenti in considerazione dell’inflazione attesa, presumendo che la Banca d’Inghilterra avrebbe raggiunto l’obiettivo di inflazione, e li hanno sovra-remunerati, a posteriori, rispetto ai miglioramenti di produttività.
Quindi, il problema per gli utili è stato il surriscaldamento imprevisto del caro vita (dallo scoppio della crisi del credito, l’indice dei prezzi al consumo è sempre rimasto al di sopra dell’obiettivo del 2% della banca centrale, tranne che per sei mesi nel 2009), più che il comportamento delle imprese nella fissazione dei salari? Se l’inflazione fosse risultata pari o superiore all’obiettivo, i lavoratori sarebbero stati in una situazione migliore, in termini reali, fino al 2012 e di certo più favorevole di quanto ci si potesse aspettare, data la forte correlazione storica fra crescita dei salari e produttività. Non credo neanche di voler imputare la responsabilità alla Banca d’Inghilterra: per raggiungere l’obiettivo di inflazione del 2%, nel Regno Unito ci sarebbero voluti tassi impropriamente alti, per le condizioni di domanda interna e i bilanci in rosso dei settori pubblico e privato. E la produttività è bassa in parte perché l’occupazione è stata sorprendentemente elevata, nonostante la debolezza dell’economia. Quindi un’economia britannica con bassa inflazione e alta produttività sembra ideale, ma nella situazione specifica, sarebbe stata possibile solo con una recessione molto più profonda e un tasso di disoccupazione più alto.
Ieri notte, mentre ascoltavo Ben Bernanke annunciare la decisione di ridurre di 10 miliardi al mese gli acquisti di Treasury e MBS (titoli garantiti da ipoteca), mi è parso chiaro che fosse arrivato il momento di coniare un nuovo termine. Con il deciso miglioramento del quadro occupazionale da un livello di estrema debolezza, negli ultimi mesi, e la crescita del PIL che si muove in direzione altrettanto positiva da un punto di pari debolezza, è del tutto giustificabile, a mio parere, che la Fed continui a fornire iniezioni di liquidità storicamente significative, anche se a un ritmo mensile leggermente ridotto. La Fed anticipa un ritorno della crescita a un passo compreso fra il 2,8% eil 3,2% per i prossimi due anni circa, e un calo della disoccupazione alla fascia 5,5-5,8% nello stesso arco di tempo. Facciamo brevemente un passo indietro: osservando queste previsioni sarebbe ragionevole aspettarsi tassi ufficiali nettamente al di sopra dello zero. Ma allora perché Ben Bernanke ha dedicato tanto tempo ad ancorare le aspettative del mercato per la futura direzione dei tassi d’interesse e perché continua a creare 75 miliardi di liquidità ogni mese?
Negli anni ’70, le nazioni più sviluppate economicamente hanno sperimentato un nuovo fenomeno inatteso, ossia un basso livello occupazionale associato a un’inflazione elevata. Come sappiamo, questa condizione ha preso il nome di stagflazione. Oggi gli Stati Uniti e, più di recente, il Regno Unito stanno vivendo una situazione opposta, caratterizzata dal rapido miglioramento dell’occupazione e da un’inflazione in calo. Ho deciso di chiamarla disinfloccupazione.
Il presidente della Fed Bernanke ha dichiarato che la bassa inflazione è “più che una piccola preoccupazione”. Dobbiamo pensare che siano stati il quadro economico e politico in miglioramento, forse insieme ai timori per la formazione precoce di bolle, a determinare la decisione di ridurre gli stimoli, da un lato, e il livello dell’inflazione a determinare il rafforzamento delle indicazioni prospettiche e l’abbassamento e indebolimento della “soglia di innesco” del tasso di disoccupazione, dall’altro. Altrimenti, date le migliori prospettive dell’economia in senso ampio, ci saremmo aspettati una normalizzazione più vera della politica, con la chiusura dei rubinetti della liquidità e il rialzo dei tassi. Credo che la preoccupazione di Bernanke, e la domanda che gli avrei posto, sia questa: che succede se i tassi d’interesse azzerati, le massicce iniezioni di liquidità e le indicazioni prospettiche non riescono a generare un’inflazione pari o superiore all’obiettivo? In questo caso che si fa, Ben?
Se la Fed dovesse trovarsi in una situazione di piena occupazione, crescita accettabile e disinflazione, con i tassi ufficiali e gli interessi a lungo termine vicini ai rispettivi minimi estremi, e le iniezioni di liquidità sempre più consistenti che si rivelano sempre meno efficaci, se non peggio, la banca centrale statunitense sarebbe pericolosamente vicina al limite dei suoi poteri. A questo punto l’unico strumento rimasto sarebbe forse il lancio di banconote da un elicottero. È in questa consapevolezza, a mio avviso, che si inquadra l’attuale azione della Fed. Con i rendimenti sui Treasury decennali all’1,5% nei mesi precedenti di quest’anno, l’infusione rapida di liquidità e i tassi d’interesse zero, non c’era praticamente più niente che la Fed potesse fare per contrastare il calo dell’inflazione: semplicemente non era possibile aggiungere molto altro stimolo. Alla sola menzione della parola che inizia per ‘t’ in maggio e, adesso, con la prima piccola attenuazione del ritmo degli stimoli, i rendimenti decennali sono balzati al 3% e da questo livello c’è spazio per una delusione sul fronte dei dati tale da spingere di nuovo i rendimenti verso il basso, scansare ancora di più le indicazioni prospettiche e incrementare il QE per dare impulso all’economia.
Dunque la disinfloccupazione è la situazione economica che giustamente spaventa a morte chi tiene le redini delle politiche in quanto, a seconda del punto di partenza dell’economia, coincide con il momento in cui la politica economica comincia a rivelarsi inefficace. Ma davvero penso che questo sia un termine che siamo destinati a sentire più spesso, nei prossimi due anni circa? Probabilmente no.
Perché la disinfloccupazione diventi un problema, il quadro occupazionale deve continuare a migliorare e l’inflazione deve continuare a scendere, o a non crescere. Mentre credo che la prima cosa sia altamente probabile a questo punto, ritengo la seconda più difficile, e la proiezione della Fed ieri anticipava un ritorno dell’inflazione all1,4-1,6% nel 2014. Per quanto ancora inferiore all’obiettivo, sarebbe un livello meno preoccupante di quello attuale. Bernanke ci ha detto ieri che al momento prevede una riduzione graduale degli acquisti al ritmo di 10 miliardi di dollari a ogni riunione, fino all’interruzione delle iniezioni di liquidità alla fine del 2014. Credo che per la Fed si prospetti un cammino irto di difficoltà, nei prossimi dodici mesi. Man mano che si procede con il tapering e i mercati cominciano ad anticipare la fine degli stimoli, i rendimenti a lunga scadenza saliranno (come è accaduto in estate) e i dati economici rischiano di andare nella direzione contraria a quella che ha dato il via al ritiro degli stimoli. Affinché il rialzo graduale dei tassi non generi effetti avversi sulla ripresa, la crescita dell’economia deve risultare così vivace da consentire una gestione agevole del costo del denaro più elevato: e in questo ambiente, di certo l’inflazione tornerebbe a far parlare di sé, no? Quindi: o la Fed giudica la ripresa troppo fragile per proseguire con il tapering, nel qual caso continuerà a incrementare l’offerta di moneta ogni mese, a rischio di ritrovarsi un’inflazione più elevata in un futuro più lontano, quando l’economia recupererà vigore; oppure la ripresa è abbastanza forte e l’inflazione (esclusa la componente delle commodity, su cui la Fed non ha alcun controllo) inizia a risalire.
Al momento i mercati stanno sorprendentemente ignorando l’inflazione, sostenuti in questo atteggiamento dal livello basso attuale nel mondo sviluppato. Sarebbe opportuno ricordare che la politica monetaria, fin dall’inizio del Grande crollo finanziario, ha perseguito principalmente uno scopo: evitare la spirale di deflazione vista negli anni ’30. La deflazione, che è chiaramente il male nella dicotomia classica, è stata evitata finora. Ma adesso le economie sviluppate sono in ripresa, le posizioni basate sulla liquidità si stanno allontanando dalle commodity e dai mercati emergenti e questo sta spingendo verso il basso i tassi di inflazione in tutto il mondo. Il 2014 procederà sulla linea sottile tra queste forze disinflative prevalenti, quindi la politica monetaria dovrà far ripartire le macchine di liquidità e le economie in ripresa dovranno attraversare questa fase di transizione e ritrovare i fattori di spinta sottostanti. Riguardo all’inflazione, o continueremo a rischiare un livello più elevato più avanti, connesso all’incremento dell’offerta di moneta, oppure inizieremo a vederla affiorare più presto di quanto si pensi adesso: in ogni modo, l’inflazione arriverà. E giusto per non dimenticarlo: alla fine del ciclo di tapering, la Fed avrà incrementato l’offerta di moneta di 4,25 trilioni di dollari. Quando la velocità di circolazione del denaro comincia ad aumentare, in aggiunta agli incrementi della massa monetaria, il prodotto nominale inizierà a salire, a meno che l’offerta di moneta non sia ridotta in misura sufficiente a compensare. È questo che trovo così improbabile, ed è questo che aumenterebbe la probabilità di disinfloccupazione. A mio parere, l’esito più probabile nel Regno Unito e negli Stati Uniti è qualche sorpresa sul fronte del prodotto nominale e quindi un ritorno dell’inflazione. E a quel punto, non sentiremo molto parlare di disinfloccupazione.
Con l’inflazione che inizia a tornare verso il livello obiettivo nel Regno Unito e i timori di deflazione diffusi in Europa, vale la pena di chiedersi se i prezzi ostinatamente elevati in terra britannica appartengano ormai al passato. Se è vero che l’eventuale prosieguo dell’apprezzamento della sterlina nel 2014 e il coinvolgimento politico nel dibattito in corso sul costo della vita potrebbero esercitare una potente pressione al ribasso sull’inflazione del Regno Unito nel breve termine, continuo a vedere un rischio maggiore di inflazione più elevata in un’ottica di più lungo periodo.
Cinque anni di inflazione vischiosa trainata dai costi
Il Regno Unito ha fatto caso a sé, fra le economie sviluppate, attraversando un periodo di inflazione decisamente “vischiosa” a dispetto della recessione più profonda che si ricordi. In un contesto economico che si direbbe più spesso associato alla deflazione, l’indice dei prezzi al consumo (CPI) è rimasto ostinatamente al di sopra dell’obiettivo del 2% fissato dalla Banca d’Inghilterra.
Uno dei fattori sottesi a questa apparente incongruenza è stato l’incremento costante del costo di alcune componenti chiave della spesa delle famiglie, unitamente alla recente impennata dei prezzi energetici, una tendenza che ritengo destinata a proseguire per molti anni.
I prezzi alimentari in ascesa sono stati un’altra fonte di pressione inflativa. Per quanto i rincari si siano attenuati negli ultimi mesi, dopo i raccolti più abbondanti dell’estate scorsa, considero inevitabile una persistente tendenza al rialzo, considerando l’espansione continua della popolazione mondiale e l’evoluzione della domanda alimentare globale.
Anche la debolezza della sterlina ha contribuito a innalzare i prezzi per i consumatori. Nonostante il buon andamento recente, bisogna ricordare che la valuta britannica ha perso circa il 20% dal 2007, nei confronti dell’euro e del dollaro statunitense. Ciò ha determinato un aumento significativo dei prezzi di molti beni importati, di cui i consumatori britannici non riescono a fare a meno.
È tempo di un’inflazione trainata dalla domanda?
Sebbene costantemente al di sopra dell’obiettivo, negli ultimi anni l’inflazione nel Regno Unito è stata relativamente contenuta, grazie alla domanda di consumi piuttosto fiacca. Tuttavia, alla luce del sorprendente vigore della ripresa economica del Paese, potremmo trovarci presto alle prese con uno shock di domanda, che andrebbe ad accentuare le pressioni esistenti dovute all’aumento dei prezzi alimentari ed energetici.
La rivitalizzazione dell’economia britannica è stata più robusta di quanto si aspettassero in molti nei mesi precedenti di quest’anno. Nel terzo trimestre il prodotto interno lordo (PIL) ha evidenziato il ritmo di espansione più rapido degli ultimi tre anni, mentre gli indici PMI dei responsabili degli acquisti di ottobre hanno rilevato tassi di crescita e creazione di lavoro da record. È importante notare come l’indice PMI per tutti i settori ha segnalato una crescita vivace non solo nei servizi (area in cui il Regno Unito tende a offrire buone prestazioni), ma anche nei settori manifatturiero e delle costruzioni. Contemporaneamente, sembra probabile che la recente accelerazione dei prezzi delle abitazioni nel Regno Unito possa avere un ulteriore impatto positivo sulla fiducia dei consumatori, trasformando la situazione attuale in quella che a mio avviso sarà una ripresa sostenibile.
La politica delle banche centrali…
Le banche centrali di tutto il mondo hanno stampato moneta al ritmo di 10 mila miliardi di dollari USA dal 2007, nel tentativo di restituire vitalità alle rispettive economie. Si tratta di un esperimento monetario senza precedenti, le cui conseguenze a lungo termine sono sostanzialmente ignote a tutti. L’impatto inflazionistico finora è stato minimo, poiché la liquidità così generata è rimasta nelle casseforti delle banche, anziché essere distribuita sotto forma di finanziamenti alle imprese. Tuttavia, credo che un impatto inflativo notevole ci sarà nel momento in cui le banche cominceranno a incrementare l’attività di prestito. A quel punto, il meccanismo di trasmissione riprenderà a funzionare e la maggiore velocità di circolazione della moneta andrà ad aggiungersi alla massa monetaria più ampia vista negli ultimi cinque anni. In mancanza di una riduzione di questa componente, a quel punto un aumento del prodotto nominale sarà inevitabile.
Inoltre, sono dell’opinione che il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, sia più concentrato del suo predecessore sulla necessità di spingere le banche a concedere credito. Il suo entusiasmo per i piani di incentivo dei prestiti come il Funding for Lending (FFL), che fornisce crediti governativi a basso costo alle banche in modo che possano a loro volta finanziare le imprese, è pensato appositamente per ripristinare il meccanismo di trasmissione, incoraggiando le banche a concedere prestiti e le imprese a chiederli. Lo stesso vale per le indicazioni prospettiche, con cui la Banca si impegna a mantenere i tassi di interesse bassi fino a quando non si realizzino determinate condizioni economiche.
Ma l’aspetto più importante è un altro: per la Banca d’Inghilterra attualmente la priorità è assicurare la crescita nell’economia reale, quindi potrebbe essere disposta a tollerare un periodo di inflazione più elevata (uno dei principi alla base dei nostri articoli sul cambio di regime della banca centrale nel Regno Unito).
…e la difficoltà di sottrarre lo stimolo.
Con un PIL reale in crescita di quasi il 3% e l’inflazione al di sopra del 2% nel Regno Unito, al momento la semplice applicazione della regola di Taylor indicherebbe che i tassi allo 0,5% sono troppo bassi. Ma, come accennato sopra, le autorità monetarie sembrano ben disposte a rischiare un temporaneo surriscaldamento per garantire o sostenere il prosieguo della ripresa. Siamo convinti che questo sia un fattore da tenere d’occhio nei prossimi anni, man mano che il mercato si rende conto della misura in cui l’abbandono delle politiche monetarie espansive e la contrazione dei tassi d’interesse siano operazioni ben più difficili dell’adozione di tali politiche e dei tagli al costo del denaro.
Abbiamo assistito a una dimostrazione chiara di queste difficoltà con il famigerato caso di mancato tapering in settembre: di fronte al miglioramento dei dati, Bernanke ha dovuto valutare la riduzione del ritmo degli acquisti mensili di titoli. Tuttavia, la combinazione di dati più incoraggianti e potenziale ridimensionamento dei piani di acquisto ha spinto i rendimenti verso l’alto; alla fine, i tassi più elevati hanno indotto i banchieri centrali a esprimere preoccupazioni per l’impatto sulla ripresa del mercato immobiliare, determinando il rinvio del tapering. Credo che si possano trarre lezioni importanti da questo esempio e che le autorità monetarie continueranno a restare diversi passi indietro, rispetto alla ripresa dell’economia.
La protezione dall’inflazione è ancora a buon mercato
Nonostante questi rischi, i gilt indicizzati continuano a scontare solo livelli modesti di inflazione nel Regno Unito. I tassi di breakeven britannici indicano che il mercato si aspetta un indice dei prezzi al dettaglio (RPI), che è il parametro di riferimento per gli investitori in titoli indicizzati, mediamente pari solo al 2,7% nei prossimi cinque anni. Tuttavia, l’RPI si è attestato in media intorno al 3,7% negli ultimi tre anni e tende ad essere più alto rispetto all’indice dei prezzi al consumo (CPI). A questi livelli, continuo a pensare che i gilt indicizzati siano relativamente convenienti rispetto ai titoli convenzionali.
Inoltre, questo scarto fra RPI e CPI potrebbe aumentare nei prossimi mesi, a causa dell’inclusione nell’RPI di varie componenti della spesa abitativa, come i pagamenti degli interessi sui mutui. La Banca d’Inghilterra stima a circa 1,3 punti percentuali il cuneo a lungo termine, mentre le stime dell’ORB (Office for Budget Responsibility) indicano un valore compreso tra l’1,3 e l’1,5 per cento. Sottraendo una di queste due stime dal tasso di breakeven a 5 anni (2,7%), i gilt indicizzati scontano livelli molto bassi del CPI.
Nella condizione attuale, l’inflazione può sembrare benigna. Tuttavia, con i potenziali shock dal lato della domanda, associati all’accelerazione della crescita e alla difficile rimozione dell’enorme “muro di denaro” creato dal QE, potrebbero emergere rischi concreti di inflazione nel medio termine. I mercati hanno adottato una visione miope concentrata sul quadro di breve termine, influenzato dal deprezzamento delle materie prime e dall’attenuazione delle aspettative di inflazione derivata dalla carenza di crescita. Ciò ha creato un’opportunità interessante per gli investitori disposti a guardare un po’ più lontano.
Date le attese di una “grande rotazione” dagli asset a tasso fisso nel 2013, gli obbligazionisti hanno vissuto un anno generalmente migliore di quanto qualcuno pensasse 12 mesi fa. Certo, non sono mancati i momenti critici: ad esempio durante l’estate, quando i mercati sono andati in tilt alla prospettiva di un giro di vite anticipato da parte della Federal Reserve. Tuttavia gli asset rischiosi, in particolare i titoli corporate high yield, hanno continuato a mietere successi e il segmento investment grade sta per chiudere un altro anno positivo nonostante la volatilità.
Quanto al contesto macroeconomico, nel corso del 2013 si è osservato un diffuso miglioramento: la ripresa è sempre più sostenuta negli USA e, recentemente, anche nel Regno Unito. Il quadro europeo resta invece variegato, mentre le economie emergenti destano crescente preoccupazione. Al di là delle diverse prospettive, però, i vari Paesi e mercati fixed income hanno almeno un elemento in comune: dipendono tutti dalla Fed.
Che cosa ha dunque in serbo il 2014 per le piazze obbligazionarie mondiali? Nell’ultimo Panoramic Outlook Jim descrive le prospettive macroeconomiche e di mercato per l’anno che verrà. E, per chi se lo stesse chiedendo, l’annuale quiz di Natale di M&G Bond Vigilantes sarà postato la prossima settimana.