Halloween è alle porte e questo significa una cosa sola… tempo di grafici da paura. Ogni anno in questo periodo mettiamo in evidenza le variabili e le statistiche economiche che potrebbero far venire gli incubi ai banchieri centrali. Se i prestiti in sofferenza, le previsioni negative e i grandi numeri vi mettono i brividi, probabilmente è arrivato il momento di spegnere il computer e dimenticare di aver mai visto questo post. Quello che segue non è per i deboli di cuore.
1. Il credito inesigibile nell’Eurozona è pari al 9% del PIL
Aspettavamo ormai da un po’ i risultati della revisione della qualità degli asset (AQR) e degli stress test della Banca centrale europea (BCE), che finalmente sono stati diffusi la settimana scorsa. In sostanza, l’AQR ha preso in esame 130 banche europee per stabilire in che misura gli istituti di prestito potrebbero reggere di fronte a un declino dell’economia di varia gravità. Le banche considerate rappresentano nel complesso l’82% degli asset bancari dell’Eurozona.
Per farla breve, 25 di queste hanno fallito o l’AQR o lo stress test. Non c’è stata molta attività nel mercato obbligazionario, dato che era un esito previsto per le banche interessate. L’aspetto importante è che la carenza di capitale identificata dai test è stata di soli 7 miliardi di euro: è un importo che sembra gestibile e le banche dovranno preparare piani di capitale entro le prossime due settimane.
La parte spaventosa dell’AQR è sepolta a pagina 67 del rapporto, in una tabella che identifica le esposizioni in sofferenza nei bilanci delle banche (altrimenti note come crediti inesigibili). Quando l’Autorità bancaria europea ha applicato la propria definizione di esposizione in sofferenza, anziché quelle interne delle banche commerciali, i crediti inesigibili sono schizzati a 879,1 miliardi di euro, con un’impennata del 18,3%. Ciò corrisponde a quasi il 9% del PIL dell’Eurozona.
Quello che ci terrorizza della revisione dei cosiddetti bad debt è che i prestiti in sofferenza sono un indicatore ritardato. Gli 879,1 miliardi di svalutazioni non sono tutto: probabilmente c’è molto di peggio. E con l’Eurozona a rischio di scivolare in deflazione (uno scenario non considerato nell’AQR), mentre intanto flirta con la recessione, è inevitabile chiedersi se i prestiti in sofferenza stiano per varcare la soglia dei 1000 miliardi di euro in un futuro non troppo lontano. Alla luce dell’ampio eccesso di crediti inesigibili che sarà necessario eliminare dal sistema bancario europeo, non sorprende che la crescita dei prestiti bancari sia così fiacca in Europa. La risposta potrebbe essere una bad bank europea.
2. Gli economisti professionisti stanno perdendo colpi nelle previsioni di inflazione
Dal 1999 la BCE raccoglie con frequenza trimestrale i pareri di oltre 75 economisti professionisti, che lavorano per banche e istituti finanziari dell’Unione Europea. Questo sondaggio ha lo scopo di valutare le aspettative sugli sviluppi economici futuri e, auspicabilmente, ottenere qualche anticipazione che aiuti Francoforte a capire se sta perdendo credibilità politica oppure no.
La BCE chiede agli economisti una previsione puntuale su inflazione, crescita del PIL reale e disoccupazione in diversi orizzonti temporali. Una domanda importante chiede agli economisti quali sono le loro aspettative di inflazione a 12 mesi. La BCE cerca di capire se tali aspettative stiano cominciando a diventare “disancorate”, ossia se stiano iniziando a discostarsi in misura significativa dall’obiettivo di stabilità dei prezzi dei banchieri centrali, che fissa l’inflazione intorno al 2%.
Confrontando le previsioni a 12 mesi con i livelli effettivi di inflazione si nota che gli economisti professionisti stanno notevolmente sopravvalutando l’andamento dell’inflazione. In realtà, dal 2000 al 2007, le previsioni di inflazione erano state piuttosto accurate. In quel periodo, gli economisti intervistati hanno sottostimato l’inflazione di circa lo 0,5%.
Nel 2008 è scoppiato il finimondo. Vale la pena di ricordare che gli economisti hanno formulato le previsioni per marzo 2008 con un anticipo di 12 mesi, a marzo 2007, quindi dovremmo mostrare un po’ di clemenza. Tuttavia, non hanno visto l’impennata dell’inflazione dovuta al rincaro del petrolio fra il 2007 e il 2008, e quindi hanno sottostimato l’inflazione di ben l’1,7% per tutto il 2008. Dal 2008 in poi, le previsioni di inflazione a 12 mesi degli economisti professionisti sono state smentite, talvolta per eccesso e talvolta per difetto.
L’aspetto spaventoso del grafico che segue è che dal 2013 gli economisti hanno regolarmente sovrastimato l’inflazione nell’UE. Quand’è che gli economisti europei cominceranno a chiedersi “cosa mi sfugge”? La possibilità molto concreta che l’Eurozona entri in una fase deflazionistica oggi è il problema principale del mondo e proprio chi avrebbe il compito di monitorare questa minaccia in realtà non la vede neanche.
3. Il nuovo “creatore di vedove”
Quello che segue è un estratto da un articolo che ho scritto qualche mese fa, intitolato “Gli schiaccia-rendimenti“.
Per gli investitori, un’operazione che ha sempre comportato perdite, in qualsiasi arco di tempo ragionevole, è stata l’assunzione di posizioni corte in titoli di stato giapponesi (JGB). Questo tipo di investimento, unico per costanza, si è guadagnato anche un nome: il “creatore di vedove”. Negli ultimi 24 anni, i rendimenti dei JGB sono crollati senza tregua, da un picco di circa l’8% toccato nel 1990 all’attuale 0,62%. Nonostante il grande esperimento monetario dell’ “Abenomics”, il creatore di vedove è vivo e vegeto.
La storia forse non si ripeterà perfettamente, ma quasi. Come illustrato nei grafici, i rendimenti sui titoli di Stato americani, tedeschi e britannici stanno seguendo un percorso pericolosamente simile a quello dei titoli nipponici all’inizio degli anni Novanta. La domanda da farsi ora è questa: l’esposizione corta ai titoli governativi dei mercati sviluppati è il nuovo “creatore di vedove”?
Per chi investe in titoli di Stato o mantiene una duration breve nei portafogli obbligazionari, il grafico che segue è terrificante. Che succede se il mondo sviluppato entra in un periodo di stagnazione secolare? E se i rendimenti sugli asset privi di rischio sono perennemente inferiori? E se gli sforzi delle banche centrali non riescono a evitare la deflazione?
4. Il debito mondiale totale è pari a 99.620.935.229.797,10 dollari
Per la prima volta nella storia, il debito mondiale sta per sforare la soglia dei 100 trilioni di dollari USA. È una cifra difficile solo da immaginare. Quindi ho fatto una rapida ricerca e ho scoperto i fatti seguenti, nel tentativo di visualizzare l’enormità di 1/100 del debito mondiale in essere, ossia 1 trilione di dollari USA. Dunque, ecco qua.
- 1 trilione di dollari in banconote messe una accanto all’altra coprirebbe la distanza dalla terra al sole (149 milioni di chilometri)
- 1 trilione di dollari in banconote è alto come 85 miliardi di persone in piedi una sopra l’altra
- Se riuscite a contare 3 banconote al secondo, dovreste vivere 124 vite contando senza sosta dalla nascita fino all’età di 85 anni
È semplicemente sconvolgente che il mondo abbia aggiunto altri 20 trilioni di dollari al debito da giugno 2009, periodo in cui l’economia globale si stava riprendendo da una crisi finanziaria devastante, provocata in parte dall’eccesso di leva. Purtroppo il sistema finanziario sembra dipendente dal debito. Le banche centrali hanno agevolato questa dipendenza attraverso l’allentamento quantitativo e le politiche monetarie ultra espansive, spingendo i risparmiatori ad assumere rischi di investimento maggiori, nella speranza di ottenere rendimenti reali positivi.
5. L’ascesa dei prodotti di gestione della ricchezza in Cina
A 14 trilioni di yuan, la quantità di denaro in prodotti di gestione della ricchezza cinesi è grosso modo pari all’intera economia del Brasile (2,2 trilioni di dollari USA). I prodotti di gestione della ricchezza (wealth management products o WMP) somigliano ai depositi a tempo per gli investitori, ma non sono necessariamente garantiti dalle banche che li emettono. La maggior parte investe in obbligazioni e mercati monetari, anche se alcuni usano azioni, derivati e prestiti per offrire ai clienti rendimenti maggiori. Ma ciò che preoccupa di più è che la garanzia per alcuni di questi WMP è data da investimenti sul mercato immobiliare cinese e su progetti infrastrutturali.
Il problema è che molti investitori in WMP probabilmente non sanno cosa comprano e sono attratti dagli alti tassi di interesse. La maggior parte degli investitori cinesi semplicemente non ha idea che i WMP non sono veri depositi. La grande maggioranza degli investitori probabilmente non va a spulciare il prospetto di un prodotto in modo abbastanza approfondito da scoprire cosa siano in realtà gli asset sottostanti a questi veicoli di investimento. Spesso si tratta di immobili e, considerando che il mercato immobiliare cinese ha subito un forte declino negli ultimi mesi, la pressione sulle banche cinesi per offrire il rendimento promesso sui WMP aumenta di giorno in giorno. I WMP sono il più grande “dolcetto o scherzetto” del mondo.
Le banche cinesi hanno fatto affidamento su questi prodotti per incrementare la base di depositi. Le banche poi prendono questi depositi ed erogano prestiti immobiliari. Si instaura così un circolo vizioso di rovina, per quando il mercato immobiliare cinese finirà per subire una correzione (proprio come quello giapponese nel 1992). Se gli investitori cominciano a perdere fiducia nelle banche e a ritirarsi in massa dai WMP, lo scenario più probabile sarebbe una stretta di liquidità. A causa dell’entità e della diffusione dei WMP, le banche sarebbero chiamate a coprire le perdite e rimborsare agli investitori sia il capitale che l’interesse garantito sui prodotti. È un altro caso di “troppo grandi per fallire”. Resta da vedere in che misura ciò avrebbe ripercussioni sul sistema finanziario e se le banche minori sarebbero in grado di gestire richieste massicce di rimborsi sui prodotti di gestione della ricchezza.
Cinque grafici da paura. Uno più terrificante dell’altro. Mi auguro che tutti i banchieri centrali e gli economisti che hanno letto questo post riusciranno a dormire stanotte. Non dite che non vi avevo avvertiti.
Le preoccupazioni relative alla crescita globale, i timori di una Fed meno accomodante e una liquidità limitata nel mercato high yield, assieme a un posizionamento eccessivamente sicuro e “affollato” da parte degli investitori, hanno condotto a un riprezzamento del mercato high yield statunitense negli ultimi mesi. In seguito ad una delle peggiori performance trimestrali da tre anni a questa parte, nel terzo trimestre di quest’anno, il mercato high yield statunitense offre oggi indubbiamente un punto di ingresso molto più appetibile. Pur prendendo atto che il mercato si sia mosso negli ultimi giorni più rapidamente di quanto io non sia riuscito a redigere questo blog, ecco dieci buone ragioni per le quali l’alto rendimento statunitense potrebbe essere considerato come un affare a questi livelli:
1. Gli spread sono tornati a livelli non registrati dall’ottobre 2013. Nel giugno di quest’anno, gli spread avevano registrato contrazioni maggiori solo il 17% circa delle volte (da quando abbiamo cominciato a raccogliere i dati a metà degli anni novanta). In seguito alla recente correzione questa cifra ha raggiunto quasi il 40%.
2. Il rendimento sull’Indice BofA Merrill Lynch US High Yield ha recentemente toccato il 6,4%, dopo aver scambiato a livelli minimi del 4,85% in giugno, e si colloca attualmente attorno al 6%, un livello probabilmente appetibile per gli investitori istituzionali.
3. Se da una parte il livello assoluto dei rendimenti può apparire limitato rispetto alle medie storiche, le valutazioni appaiono ancora interessanti rispetto a liquidità e titoli di Stato.
4. Dato il livello relativamente elevato di reddito generato dall’asset class, e la visione ottimistica rispetto ai default, l’alto rendimento statunitense può sopportare ancora un notevole ampliamento degli spread prima di cominciare a registrare performance inferiori a liquidità e titoli di Stato. Ipotizzando un tasso di default del 2% e nessuna variazione a livello di rendimento dei titoli di Stato, i differenziali di high yield dovrebbero ampliarsi di circa 100 punti base rispetto agli attuali livelli per arrivare a registrare performance inferiori a treasury dalla duration analoga. Ciò condurrebbe gli spread a livelli non toccati dal 2012.
5. Altri asset obbligazionari hanno generato performance decisamente superiori a quelle del segmento HY da inizio anno. Stando agli indici di Bank of America Merrill Lynch, i titoli di Stato statunitensi hanno generato il 5,5% e le obbligazioni societarie investment grade il 7,7% da inizio anno, mentre l’high yield USA ha reso il 4,5%. Come mette in evidenza il grafico di seguito, le obbligazioni con rating BB (la categoria con il rating più elevato nell’ambito dell’alto rendimento) sono divenute decisamente più convenienti rispetto alle obbligazioni societarie BBB.
6. I fattori tecnici sono decisamente più favorevoli di qualche mese fa, a fronte di deflussi dall’asset class pari a circa 21 miliardi di dollari nel 2014 (stando a BofA Merrill Lynch). L’offerta di nuove emissioni è leggermente diminuita e il mercato sta diventando più selettivo in ambito di assunzione del rischio.
7. I fondamentali delle imprese high yield statunitensi, pur essendo peggiorati leggermente negli ultimi due anni, sono ancora in condizioni discrete, con un livello di indebitamento e copertura degli interessi di 3,9x.
8. Il rischio di default resta limitato. Il rischio di rifinanziamento rimane uno degli ostacoli principali per le imprese indebitate, ma appare limitato per i prossimi due anni in quanto molte compagnie hanno tratto vantaggio dall’abbondante liquidità per estendere i loro profili di debito, come illustrato dal grafico sottostante.
9. Quando la Fed innalzerà eventualmente i tassi, è probabile che assumerà un approccio prudente, avviando la sua politica di inasprimento in maniera graduale. Il cosiddetto carry trade non dovrebbe terminare all’improvviso almeno nel prossimo futuro.
10. Un inasprimento della politica sarebbe probabilmente accompagnato da un miglioramento del contesto economico. Anche se la fetta di profitti societari del PIL è già relativamente elevata, è probabile che questa situazione sia sostenibile in un’economia più solida.
Lo scorso anno ho postato qui un articolo sullo stato del mercato del lavoro statunitense. Data la diffusione a settembre delle cifre relative alle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione, penso sia giunto il momento di ritornare sull’argomento.
Le richieste iniziali di sussidi di disoccupazione statunitensi sono un indicatore che traccia il numero di persone che presentano per la prima volta domanda per ottenere sussidi di disoccupazione, rappresentando il flusso di individui che percepiscono questo tipo di indennità. La cifra complessiva di 288.000 per il mese di settembre è sorprendentemente bassa, la più bassa da gennaio 2006. Eppure, non riflette appieno l’attuale vigore del mercato del lavoro: una volta adeguato tenendo conto della popolazione attiva, il numero di coloro che richiedono questi sussidi di disoccupazione come percentuale della forza lavoro statunitense arriva a toccare in realtà i minimi storici degli ultimi decenni.
Le richieste iniziali di sussidi di disoccupazione sono calcolate su base mensile mentre i dati relativi alla popolazione statunitense in età lavorativa sono valutati dall’OCSE una volta l’anno. Perciò è particolarmente importante notare che le cifre relative alla popolazione attiva per il 2014 non sono ancora disponibili e che quindi sono stati estrapolati i dati del 2013 e mantenuti inalterati a partire da fine anno. Di conseguenza, il grafico dipinge un quadro più cauto della realtà, in quanto non tiene conto della crescita della popolazione nel 2014. Se ne tenesse conto, il calo di quest’indicatore sarebbe ancora più accentuato.
Tradizionalmente la Fed adotta una politica monetaria più restrittiva man mano che l’economia recupera terreno e che diminuiscono le richieste di sussidi di disoccupazione. Quello che sorprende oggi è che non ha neanche iniziato a innalzare i propri tassi di interesse. In passato, il suo ciclo di inasprimento sarebbe terminato ancora prima che le richieste di sussidi di disoccupazione avessero toccato i livelli attuali.
La Fed ha sottolineato svariate volte che le sue decisioni sui tassi dipenderanno dall’evoluzione dei dati e che martedì e mercoledì della prossima settimana (28-29 ottobre 2014) il FOMC (Federal Open Market Committee) dovrebbe decidere se porre o meno fine al programma di allentamento quantitativo. Date le cifre discusse sopra, sembra che l’economia statunitense stia continuando a rispondere in modo positivo alle misure di stimolo e che il mercato del lavoro statunitense stia muovendosi nella giusta direzione. Con un numero maggiore di occupati e una quantità inferiore di richieste di sussidi di disoccupazione, la traiettoria al ribasso di questo indicatore (così come quella di altri indicatori del mercato del lavoro) contribuisce a dipingere un quadro macroeconomico positivo. Tuttavia, l’instabilità provocata dall’avversione al rischio della scorsa settimana ha spinto molti operatori di mercato a chiedersi se la volatilità registrata avrà conseguenze sul futuro dell’allentamento quantitativo. Tenendo conto che tale situazione è scaturita dalla diffusione di dati relativi alla performance deludente delle vendite al dettaglio statunitensi, si potrebbe affermare che si tratta comunque di un dato di per sé volatile, la cui pubblicazione ha provocato una reazione eccessiva nei mercati obbligazionari (accentuata da capitolazioni, violazioni dei limiti tecnici, etc).
Se anche il FOMC ritiene che la reazione del mercato sia stata eccessiva, baserà le sue decisioni sui fondamentali e sul recupero globale dell’economia. Se tenesse quindi fede a quanto affermato, i mercati dovrebbero aspettarsi una fine agli acquisti degli asset alla data prevista.
La scorsa settimana ho partecipato agli Incontri Annuali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) a Washington D.C., dove ho avuto l’opportunità di prendere parte a una serie di riunioni molto interessanti con funzionari di governo e altri leader finanziari mondiali. In quasi tutte le discussioni si è parlato di come i Paesi emergenti stiano portando avanti il loro adeguamento a una nuova fase, caratterizzata da meno liquidità e dal declino dei prezzi delle materie prime. Questo processo di adeguamento ha finora seguito un percorso discretamente stabile. L’asset class ha generato rendimenti dignitosi dall’inizio dell’anno, in parte per via del calo dei rendimenti statunitensi e in parte per via della contrazione degli spread e del carry. Le valute, uno dei principali canali di adeguamento a questo nuovo contesto, si sono deprezzate, elemento che avevo evidenziato nei primi mesi dell’anno.
Guardando al 2015, le preoccupazioni cominciano a spostarsi dai tassi statunitensi a specifici fattori dei Paesi emergenti. Un rallentamento della crescita in Cina e in altri Paesi è stato il primo timore sottolineato durante le riunioni. Ciò riflette un recupero globale impari, dove gli Stati Uniti non sono in grado di compensare pienamente le problematiche di crescita di Eurozona e Giappone. Inoltre, anche gli eventi geopolitici e i problemi strutturali dei singoli Paesi hanno contribuito al rallentamento.
In Ucraina, le aspettative di una ristrutturazione tramite un’estensione volontaria delle scadenze non sorprendono, nonostante i toni di sostegno da parte dei funzionari dell’FMI, facendo intuire l’eventualità di un ulteriore stanziamento di fondi, dovuto a necessità di finanziamento più elevate dato il conflitto più aspro del previsto. Nonostante i toni di sostegno, resto cauta sul credito a questi livelli, e sono dell’avviso che potrebbero insorgere rischi di contagio da default di banche statali negli anni a venire, in quanto avranno accesso alla liquidità in hryvnia dalla banca centrale, ma nessun accesso preferenziale al dollaro statunitense data la debole posizione di riserve internazionali dell’Ucraina.
Le aspettative di default del Venezuela sembrano inferiori a quanto scontato dai prezzi di mercato. Suppongo che questa sconnessione rifletta l’incerto valore di recupero sul credito, rispetto a precedenti ristrutturazioni dei mercati emergenti. L’esercizio di recupero è reso difficile dall’importo e dal grado di priorità di ulteriori richieste di rivalsa, come reclami di dollari da parte di importatori, compagnie aeree, compensazioni per nazionalizzazioni anteriori di asset e debiti statali.
L’Argentina ha davanti a sé un anno difficile, date la sua stagflazione e le riserve in declino, pur avendo un leggero vantaggio sugli altri due crediti in sofferenza, nel senso che è più probabile che una nuova amministrazione persegua politiche economiche più ortodosse dell’amministrazione attuale. Comunque la disputa legale del Paese con i cosiddetti holdout (ovvero i creditori che non hanno accettato la rinegoziazione dei titoli di debito all’epoca del default) si protrarrà ben oltre l’inizio del nuovo anno ed esiste anche il rischio che un’accelerazione obbligazionaria sulle obbligazioni Par in default renda la situazione ancora più complessa.
La seconda tornata di elezioni in Brasile, il 26 ottobre, sarà critica. Gli investitori stranieri sono più scettici rispetto alla possibilità di vittoria del candidato pro-mercato Aecio Neves. A mio avviso la natura di queste elezioni e’ un po’ meno binaria dei mercati. Tenendo conto della frammentazione partitica in Brasile, la capacità di Aecio di far attuare riforme al Congresso potrebbe deludere. A questi livelli, tuttavia, percepisco maggior potenziale di rialzo dei prezzi degli asset, e soprattutto ai tassi locali, nel caso di una sua vittoria, piuttosto che potenziali di ribasso qualora Dilma fosse rieletto.
Per quel che riguarda la Russia, la sua capacità di mantenere il suo rating di credito investment grade dipenderà principalmente dalla durata del conflitto con l’Ucraina. I rapporti con l’occidente, in particolare con gli Stati Uniti, hanno toccato il fondo e sono ai livelli peggiori dai tempi della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti sono decisi a mantenere le loro sanzioni per ancora lungo tempo, se necessario. Resto cauta sul credito, ma credo che i differenziali riflettano già il deterioramento dei flussi di capitale, delle riserve internazionali e del recente declino dei prezzi petroliferi. Il rischio di credito tra i titoli sovrani e alcune delle imprese statali più importanti, come Gazprom, o le maggiori banche in mano allo Stato, dovrebbe permanere.
In termini di ripartizione complessiva degli asset, non vi è grande consenso su quali titoli (debito esterno, locale o debito societario) registreranno andamenti sovraperformanti il prossimo anno, mentre molti attori di mercato si trovano più d’accordo sulle aspettative di rendimento, prevedendo cifre singole e contenute. In base a queste previsioni, i flussi nell’asset class dovrebbero restare positivi, ma materialmente inferiori ai livelli registrati nel 2013.
Nelle obbligazioni in valuta locale, credo che il recente rally dei tassi statunitensi e la caduta dei prezzi delle materie prime suggeriscano un aumento della duration in alcuni Paesi. Diverse banche centrali dei Paesi emergenti sono disposte a permettere un ulteriore indebolimento della valuta senza la necessità di inasprire la politica monetaria. Ritengono che qualsiasi pressione sull’inflazione sarà percepita dagli agenti economici come temporanea, particolarmente nei Paesi come il Cile, dove esiste un divario di produzione, o in Paesi come la Colombia, già alle prese con una politica monetaria restrittiva.
Prevedo che i rendimenti saranno più contenuti per la valuta forte il prossimo anno e che il divario tra i rendimenti obbligazionari in valuta forte e locale non sarà altrettanto ampio che quello di quest’anno. Inoltre, la selezione dei Paesi resta essenziale, come abbiamo potuto constatare negli ultimi anni.
L’andamento divergente dei rendimenti europei e statunitensi è stato uno dei temi chiave sui mercati obbligazionari nel 2014 e, di conseguenza, un argomento molto discusso sia su questo blog che altrove. Negli ultimi due mesi e mezzo, però, è emerso un secondo tipo di disaccoppiamento transatlantico, questa volta relativo agli spread del credito.
Ma diamo prima un’occhiata alla performance relativa da inizio anno (YTD) del credito investment grade (IG) in dollari e in euro. Entrambe le serie di dati nel grafico sotto sono state ribasate, ossia impostate a un valore iniziale comune di 100. Con qualche piccola eccezione, i livelli di spread di entrambi gli indici hanno evidenziato una tendenza al ribasso piuttosto costante, nel corso dell’anno, sino a fine luglio. Da quel momento in poi, è iniziato il disaccoppiamento. Mentre gli spread degli asset swap (ASW) IG in euro hanno continuato a comprimersi, quelli dei titoli omologhi statunitensi si sono notevolmente ampliati.
Considerando l’andamento divergente del ritmo di crescita economica negli ultimi mesi, questo sviluppo a prima vista appare contrario alla logica. La ripresa economica negli Stati Uniti è stata vigorosa, con una crescita del PIL reale del 2,6% (Q2 2014, a/a) e un forte calo della disoccupazione dal 10% di ottobre 2009 al 5,9% rilevato a settembre 2014. Per contro, l’economia dell’Eurozona è apparsa piuttosto stagnante, con una crescita anemica del PIL pari allo 0,7% (Q2 2014, a/a) e un tasso di disoccupazione sempre alto (11,5% ad agosto 2014). Su questo sfondo, sarebbe logico aspettarsi che le imprese statunitensi siano messe molto meglio delle concorrenti europee, come prospettive di crescita e redditività, e risultino quindi meno rischiose, come emittenti di obbligazioni. Da parte loro, gli investitori dovrebbero esigere premi al rischio più elevati per il credito IG in euro. Su queste basi, gli spread dei titoli in USD avrebbero dovuto contrarsi rispetto a quelli in EUR. Ma allora perché è esattamente il contrario? Perché gli spread dell’IG in EUR hanno sovraperformato quelli in USD negli ultimi due mesi e mezzo?
Innanzitutto, da un punto di vista metodologico, si potrebbe sostenere che gli emittenti obbligazionari europei, gravemente penalizzati dal malessere economico, probabilmente ormai saranno stati declassati a high yield e quindi non possono influenzare negativamente i credit spread dell’indice IG. Ma, a parte questa nota tecnica, possiamo ipotizzare tre motivi.
- Bisogna tenere conto delle diverse politiche delle banche centrali, adeguate in risposta al divario economico sempre più profondo fra gli Stati Uniti e l’Eurozona, e dei relativi effetti sui costi di rifinanziamento. La Federal Reserve è sul punto di chiudere il programma di allentamento quantitativo (QE) e tutti si aspettano che aumenti i tassi l’anno prossimo, mentre la Banca centrale europea (BCE) è impegnata nell’espansione del proprio bilancio e, con ogni probabilità, manterrà i tassi d’interesse vicini allo zero nell’immediato futuro. In prospettiva, le aziende statunitensi potrebbero dover affrontare costi di rifinanziamento più alti, rispetto alle controparti europee. In altre parole, una BCE sempre più accomodante probabilmente assicurerà rifinanziamenti a basso costo per gli emittenti europei, contribuendo a mantenere i tassi di default societari a livelli estremamente modesti. Di conseguenza, gli spread del credito IG in EUR risultano soppressi in via permanente.
- L’intervento della banca centrale incide molto sulla liquidità, anche nei mercati delle obbligazioni societarie. Quando una banca centrale avvia un programma di QE, come sta facendo ora la BCE in un modo o nell’altro, gli investitori vengono in una certa misura allontanati dagli asset (quasi) esenti da rischio e spinti a forza verso attivi più rischiosi, come le obbligazioni societarie. Un numero maggiore di investitori che si riversano sui mercati dei titoli societari implica un incremento dell’attività di negoziazione e, quindi, della liquidità. Di conseguenza, il premio di illiquidità incorporato nei credit spread dovrebbe crollare. Al contrario, se una banca centrale abbandona il QE, come sta facendo la Fed, ci si aspetta una minore liquidità delle obbligazioni societarie e quindi premi di illiquidità più elevati, che innescano un ampliamento degli spread.
- Un’altra argomentazione riguarda gli effetti del lato dell’offerta. Secondo Morgan Stanley Research, da agosto l’emissione netta di titoli IG in EUR su scala globale è stata molto inferiore a quella in USD (21,8 miliardi di EUR contro 135,7 miliardi di USD). Da inizio anno, il credito IG in EUR di fatto risulta in territorio di rimborso netto (i titoli in scadenza superano le nuove emissioni) per 2,3 miliardi di euro, a fronte di un volume considerevole di nuove emissioni IG in USD, pari a 490,3 miliardi di dollari. Questa offerta limitata di titoli di credito IG in EUR ha aggiunto un premio di scarsità ai prezzi delle obbligazioni europee, il che ha provocato, a sua volta, la compressione degli spread.
Guardiamo ora più nel dettaglio, facendo una scomposizione dei livelli complessivi di credit spread degli indici su base settoriale. Il grafico di seguito mostra gli intervalli da inizio anno degli spread ASW per i settori delle obbligazioni societarie IG in dollari (settori ML Livello 3). Tutte le barre sono suddivise in quattro parti, indicate di seguito come quartili, ciascuna delle quali contiene il 25% delle rilevazioni degli spread da inizio anno. I pallini e i rombi indicano, rispettivamente, gli spread settoriali correnti (14 ottobre) e i livelli di spread all’inizio del disaccoppiamento (24 luglio).
Colpisce come negli ultimi due mesi e mezzo, gli spread del credito IG in USD si siano ampliati in tutti i settori. Nella vasta maggioranza dei casi, i livelli sono aumentati da valori del 1° quartile, vicini alla soglia inferiore degli intervalli YTD, fino a raggiungere il 3° se non il 4° quartile. L’ampliamento degli spread è stato particolarmente pronunciato per i settori che hanno visto di recente un livello elevato di rischio eventi, in forma di operazioni di fusione e acquisizione effettive o anche solo ipotizzate (nello specifico, salute, energia e telecomunicazioni). E questo solleva un altro aspetto importante: appare sempre più chiaro che l’economia statunitense è entrata in una nuova fase del ciclo economico, mentre l’Europa è ancora decisamente dietro la curva. Le aziende americane stanno assumendo quantità di rischio crescenti nei bilanci, ad esempio attraverso fusioni e acquisizioni, inseguendo le opportunità di crescita. Di conseguenza, gli investitori nel reddito fisso esigono un extra rendimento sul credito IG in USD, in modo da ottenere un’adeguata remunerazione per questa esposizione al rischio aggiuntiva.
Il quadro è più sfumato per il credito IG in EUR. Gli spread si sono ampliati in alcuni settori (commercio al dettaglio, tempo libero e assicurazioni) e ridotti in altri (salute, servizi finanziari e telecomunicazioni). Questo schema, anzi, l’assenza di uno schema chiaro, suggerisce l’influenza di fattori settoriali specifici, in aggiunta ai motivi più generali descritti in precedenza. Prendiamo, ad esempio, i finanziari. Nell’area delle banche e dei servizi finanziari, i credit spread hanno visto una forte contrazione e oggi si collocano saldamente nel primo quartile dei rispettivi intervalli YTD. Ciò collima perfettamente con una BCE accomodante e i costi di rifinanziamento ridotti, che sono particolarmente rilevanti per emittenti di titoli finanziari. Per contro, gli spread già elevati nel settore assicurativo si sono ampliati fino a raggiungere il 4° quartile. Una spiegazione di questo comportamento divergente si può individuare nel fatto che le incertezze ancora irrisolte legate all’imminente implementazione della direttiva Solvibilità II, che influenza selettivamente le compagnie assicurative europee, vanificano i benefici delle politiche messe in campo dalla banca centrale e le dinamiche di offerta favorevoli.
Quindi, quali sono le implicazioni del disaccoppiamento degli spread per il grado di appetibilità relativa del credito IG in USD e in EUR? La situazione somiglia al vecchio dubbio fra Treasury e Bund: in fin dei conti, si tratta di stabilire se il disaccoppiamento in atto sia una tendenza sostenibile oppure no. Per chi è convinto che il divario in termini di ripresa economica, politiche della banca centrale e offerta di credito continuerà ad ampliarsi, la scelta ovvia è puntare sul credito IG europeo. La prospettiva di un’ulteriore contrazione degli spread dell’IG in EUR e, quindi, di apprezzamento del capitale avrebbe più peso dei livelli inferiori di spread e rendimento. In generale, ormai da tempo diamo preferenza al credito IG in USD, esattamente per via degli spread mediamente più elevati rispetto ai titoli omologhi in EUR, anche considerando l’effetto a la differenza tra valute. Anche se il disaccoppiamento non ha di certo giocato a nostro favore negli ultimi tempi, ha comunque rafforzato il tema del valore relativo. Oggi otteniamo un extra spread ancora più consistente investendo in obbligazioni IG in USD anziché in EUR, rispetto a due mesi e mezzo fa. Il basso livello assoluto attuale degli spread IG in EUR fa apparire il potenziale di rialzo piuttosto limitato, in prospettiva. Infine, la natura globale dei mercati delle obbligazioni societarie probabilmente impedirà al disaccoppiamento di progredire a oltranza. Se gli spread del credito IG in EUR continuano a ridursi rispetto a quelli in USD, le società di tutto il mondo cercheranno di minimizzare i costi di finanziamento emettendo titoli in euro anziché in dollari. Questa tendenza invertirebbe gli attuali squilibri sul lato dell’offerta, frenando quindi il disaccoppiamento.
Venerdì scorso il mercato del lavoro statunitense ha dato ulteriore prova del suo rafforzamento. A settembre sono stati creati 248.000 nuovi posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è calato al di sotto del 6% per la prima volta in sei anni. I tassi di disoccupazione complessivi europei, per contro, sono molto più deludenti: le cifre più recenti si aggiravano intorno all’11,5% nell’Eurozona per il mese di agosto.
Meno incoraggiante per gli Stati Uniti è stata invece la caduta del tasso di partecipazione ai suoi minimi livelli dal 1978. Il tasso di partecipazione misura il numero di persone occupate o attivamente in cerca di occupazione come quota della popolazione in età lavorativa. I tassi di disoccupazione e partecipazione vanno analizzati in maniera congiunta per poter ottenere un’immagine più nitida della situazione. Prendiamo questo esempio, seppur estremo: un’economia potrebbe in apparenza vantare piena occupazione (disoccupazione pari a zero), ma se il suo tasso di partecipazione è pari a zero, nessuno sta in realtà lavorando.
Il calo del tasso di partecipazione statunitense è stato al centro di numerose discussioni in quanto rappresenta una delle misure cui Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, fa sempre riferimento nel rispondere alle domande relative al vigore dell’economia statunitense. Questo calo potrebbe essere attribuibile a diverse ragioni, tra cui la presenza di lavoratori scoraggiati che smettono di cercare impiego, alcuni optando per il prepensionamento, altri decidendo di continuare (o tornare) a studiare. Tuttavia i tassi di partecipazione in Europa sono meno discussi, pertanto sono grato ad Erik Nielsen di Unicredit per aver messo in luce la situazione nella regione.
Dunque, in Europa, se da una parte le cifre relative alla disoccupazione sono piuttosto deprimenti, il tasso di partecipazione di per sé sta seguendo una traiettoria generalmente al rialzo, e questo vale sia per i Paesi principali che per quelli periferici (si rimanda al grafico), quindi non sono semplicemente i dati tedeschi a nascondere cifre meno positive altrove. Ribadisco che le ragioni sono svariate, ma potrebbero includere una maggiore proporzione di donne entrate a far parte della forza lavoro negli ultimi anni, e un aumento dell’età pensionabile in alcuni Paesi.
Per poter valutare la situazione reale dei diversi Paesi e il progresso relativo di ciascuno di essi, abbiamo tenuto i loro tassi di partecipazione costanti ai livelli del 2000 e tracciato il modo in cui si sarebbero evoluti i successivi dati di disoccupazione se il numero di individui inclusi nella forza lavoro fosse rimasto agli stessi livelli rispetto al volgere del secolo.
Come mostrano i grafici seguenti, i risultati sono illuminanti. La disoccupazione complessiva in Italia si attestava a fine 2013 al 12,5% (ultimo dato disponibile), ma una volta applicato il tasso di partecipazione del 2000 questo dato cade all’8,7%, un calo di 3,8 punti percentuali. Lo stesso vale per la Spagna, dove la differenza è addirittura del 13,3%. Negli Stati Uniti (dove abbiamo a disposizione dati più recenti), per contro, il livello attuale complessivo di disoccupazione del 5,9% passa al 12,5% quando si applica il tasso di partecipazione del 2000.
Sono stato piuttosto sorpreso da questa notevole divergenza e dal fatto che gli Stati Uniti versino in realtà in una posizione peggiore di quella del 1999, rispetto all’Europa periferica. Non so se l’Eurozona stia per entrare in un periodo di crescita più solida o se la sua economia finirà con l’assomigliare a quella del Giappone, ma questi grafici mi spingono sicuramente più verso la prima ipotesi.
Oggi sui mercati finanziari si parla continuamente del rischio di disinflazione e deflazione, invocando l’intervento delle autorità monetarie per scongiurare uno scenario giapponese. In un commento di febbraio, sostenevo che il timore di disinflazione e deflazione non è giustificato come si potrebbe pensare. Forse anche l’idea condivisa che i Paesi sviluppati non vogliano fare la fine dell’Impero del Sol Levante merita qualche considerazione.
Il Giappone è oggi il simbolo dell’inefficacia delle politiche monetarie e di governo. Gli errori commessi dalle autorità locali negli anni Novanta del Novecento avrebbero bloccato l’economia per 25 anni: una tesi che riflette in parte la tendenza delle piazze finanziarie a giudicare l’economia dall’andamento della borsa.
Dato il crollo del Nikkei da oltre 40.000 a inizio anni Novanta a circa 16.000 oggi, la performance del mercato azionario è diventata per tutti un parametro dello stato di salute del Paese.
In realtà, il vigore dell’economia dovrebbe essere misurato in base alla produzione e non alle plusvalenze azionarie. A prima vista, i dati nazionali sulla crescita nominale e reale ci dicono che il Giappone ha accumulato un ritardo rispetto a molte altre economie.
Spesso si citano pedissequamente le statistiche sul PIL nominale e reale del Giappone per evocare lo spettro della stagnazione. Per un economista, però, ciò che conta di più è il PIL pro capite. Il fatto che un Paese cresca più di un altro non è di per sé positivo, se si deve esclusivamente a un aumento della popolazione.
Il grafico seguente mostra il PIL reale pro capite. Da un punto di vista locale, il Giappone non è stato un fallimento economico. Al contrario, negli ultimi 25 anni il tenore di vita del Giapponese medio è migliorato.
Secondo il grafico, comunque, il Paese è rimasto indietro: non sorprende che gli economisti temano uno scenario giapponese. Personalmente, credo che la rilevazione del PIL dovrebbe essere legata non solo al numero di abitanti, ma anche alle dinamiche demografiche a lungo termine. Durante un periodo di esplosione demografica, la crescita del PIL tende ad accelerare, per poi rallentare alla fine del baby boom. I lavoratori vanno in pensione; consumi e investimenti calano. Per ragionare sul PIL pro capite, bisogna prendere in considerazione la popolazione attiva anziché quella effettiva. Di seguito abbiamo rappresentato graficamente il PIL pro capite della popolazione attiva. Otteniamo così un’indicazione più veritiera del PIL pro capite e vediamo migliorare ulteriormente la posizione relativa del Giappone.
Quale lezione possiamo trarre dal Giappone?Dato il PIL pro capite potenziale, il quadro è meno fosco di quanto possa sembrare. Di fatto la politica monetaria e fiscale ha funzionato. Certo, scarsa inflazione e azzeramento dei tassi di interesse fanno paura a tutti, a cominciare dai politici –forse troppa paura, stando a una semplice analisi dei dati.
Finalmente sono riuscito a leggere “Il segnale e il rumore”, di Nate Silver. È un’analisi brillante del motivo per cui le previsioni spesso sono così poco attendibili, fatta dall’uomo che ha azzeccato l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi del 2012 in tutti gli Stati. In breve, le previsioni spesso vengono smentite perché sono troppo precise (indicano un esito assoluto invece di assegnare probabilità a esiti diversi); sovente c’è la tendenza a prediligere informazioni qualitative, sensazioni “di pancia” e aneddoti rispetto ai dati (fattori degni di considerazione, ma per i quali si dovrebbe fissare una soglia elevata perché prevalgano sulle statistiche); e c’è anche una tendenza a escludere dei dati dal campione (l’autore suggerisce che le agenzie di rating abbiano valutato erroneamente i CDO basati su MBS presumendo che non ci fosse alcuna correlazione tra i default immobiliari, come era effettivamente il caso nei circa 25 anni di dati statunitensi usati nei modelli. Le statistiche sulla crisi immobiliare del Giappone avrebbero mostrato che, in una fase di declino, il grado di correlazione nei default diventa estremamente elevato). Ora, vorrei proporre un patto: noi britannici ci impegniamo a non usare mai le statistiche del cricket in uno studio accademico, purché gli americani la finiscano di parlare di baseball. Che diamine significa colpire .300? A quanti rounder corrisponde?
Mi sono piaciuti questi grafici. Il primo mostra l’alta affidabilità delle previsioni del tempo al giorno d’oggi. Non sono sempre giuste, ma quando indicano la probabilità che un evento meteorologico si verifichi, in genere corrisponde alla frequenza con cui si verifica. Ad esempio, se il National Weather Service (il servizio meteorologico nazionale statunitense) dice che c’è una probabilità di pioggia del 70%, piove nel 70% dei casi. La previsione dice che c’è una probabilità di neve del 20% e nevica nel 20% dei casi.
Ma quando l’annunciatore meteo della vostra TV locale entra in possesso delle stesse informazioni, tende a distorcerle al punto che le previsioni risultano di gran lunga peggiori di quelle del National Weather Service. Il grafico sotto mostra come le TV locali esagerino costantemente le previsioni relative a eventi meteorologici. Ad esempio, se dicono che c’è una probabilità di pioggia del 100%, piove solo nel 67% dei casi, mentre quando il National Weather Service fa la stessa previsione, in effetti piove sempre.
Ma perché? “La presentazione ha precedenza sulla precisione”. In altre parole, i giornalisti e i meteorologi delle TV locali si considerano intrattenitori, oltre che portatori di informazione. La predizione certa di un temporale biblico è più eccitante di una gamma di esiti possibili e la previsione di una giornata rovente in riva al mare attira di più che non assegnare una probabilità del 75% a sprazzi soleggiati. Altri studi hanno dimostrato la scarsa performance degli analisti politici, che nei dibattiti televisivi prevedono sistematicamente risultati molto distanti da quelli delle indagini statistiche. Il solo fatto di essere in TV riduce la capacità di previsione. Probabilmente la stessa cosa vale per le previsioni economiche e di mercato, ed è per questo che i canali televisivi dedicati alla finanza sono pieni di gente che anticipa un’impennata del Dow di altri 200 punti percentuali, oppure il collasso dell’economia globale in una perenne apocalisse di zombie alimentata da Ebola. Esiste il rischio che, interpellati da un giornalista a caccia di commenti, sentiamo l’esigenza di dire qualcosa di molto diverso dal consenso, sull’occupazione, sul rendimento dei Treasury decennali a fine anno o sulle probabilità di disgregazione dell’Eurozona: sono certo di esserci caduto anch’io in passato. E, cosa ancora più importante, sono certo che chi prevede eventi estremi si ritrova spalle al muro, pressato dalla sensazione di dover mettere in pratica quelle previsioni nei portafogli, e quindi con portafogli che, puntando solo nella direzione di eventi “di coda”, non possono generare risultati positivi in circostanze economiche normali. Credo che per gli economisti e i gestori di fondi sia una lettura obbligata: aiuta a capire come formulare previsioni accurate e a rendersi conto che le previsioni più “chiassose” ottengono uno spazio spropositato sui media, ma spesso sono sbagliate. Silver ha segnato davvero un wicket maiden con questo libro.
Finalmente è arrivata anche la BCE al party dell’allentamento quantitativo (QE). Gli acquisti di asset non sterilizzati sono stati uno strumento di politica importante in gran parte del mondo sviluppato, negli ultimi anni, ma il mese prossimo (casualmente, in coincidenza della chiusura di quello della Fed), la BCE compirà la sua prima incursione nel QE vero e proprio, avviando un programma di acquisti di titoli garantiti da attivi (ABS).
Per quanto concentrato su ABS “semplici, trasparenti e reali”, negli auspici della BCE questo programma dovrebbe stimolare i prestiti all’economia reale e, in questo modo, allontanare lo spettro sempre incombente della deflazione. Un mercato degli ABS sano dovrebbe offrire alle banche un’alternativa a lungo termine ai finanziamenti a basso costo da parte della banca centrale, dato che questi strumenti sono garantiti da prestiti di natura molto variegata, da quelli per l’acquisti di auto ai mutui ipotecari, fino ai pagamenti con carta di credito.
È chiaro che il mercato in Europa ha bisogno di essere rinvigorito, dopo la sostanziale paralisi dell’attività provocata dalla crisi finanziaria. L’emissione di ABS in Europa nel 2013 ha totalizzato un valore di appena 183 miliardi di euro (secondo i dati dell’Associazione per i mercati finanziari in Europa), contro i 711 miliardi del 2008. Da parte sua, il mercato statunitense invece scoppia di salute, con emissioni totali per 1500 miliardi di euro nel 2013, un livello ampiamente superiore all’emissione 2008 del corrispondente europeo di 934 miliardi.
Ma – perché c’è un ma – oggi la BCE deve fare i conti con un ostacolo non da poco, che assume la forma di una barriera normativa: nello specifico, il trattamento della cartolarizzazione in base all’ultima versione della proposta Solvibilità II. Nella sua formulazione attuale, la Solvibilità II prevede per le compagnie assicurative (un’ampia base di investitori prima della crisi) l’obbligo di detenere un capitale doppio, per investire in un RMBS olandese a cinque anni di categoria AAA, di quello necessario per detenere un covered bond di pari qualità e pari scadenza, garantito da attivi simili. Per gli emittenti dell’Eurozona periferica la situazione è ancora più difficile: l’onere di capitale su un RMBS spagnolo quinquennale A+ è pari a circa il 20%, contro il 7% associato a un covered bond analogo. Questi requisiti normativi non valgono per le società di gestione patrimoniale come la nostra, ma rappresentano un disincentivo molto pesante per gli assicuratori, che penseranno di poter ottenere una migliore remunerazione altrove.
L’idea sottesa a questi oneri di capitale elevati è certamente la protezione dei bilanci contro la probabilità di default. Ma un rapido sguardo ai dati sugli inadempimenti restituisce un quadro interessante. Secondo uno studio condotto al riguardo da Standard & Poor’s, i livelli di default sui titoli RMBS europei hanno raggiunto un massimo di appena l’1% negli ultimi sei anni. Eppure negli Stati Uniti, dove gli oneri di capitale sono più in linea con quelli delle obbligazioni societarie, i casi di default sugli RMBS sono stati di gran lunga più frequenti, con un picco del 28,5% nel 2009 e un livello ancora appena al di sopra del 10% nel 2013. Al di là delle differenze nella classificazione normativa dei titoli ABS, in generale negli Stati Uniti gli oneri di capitale sono decisamente inferiori a quelli europei su tutti gli strumenti.
Ciò rappresenta un problema particolarmente pressante per due motivi: non solo la BCE spera di avviare il programma di acquisti di ABS in ottobre, ma la bozza della normativa Solvibilità II sarà messa ai voti alla fine di settembre. Se la Commissione Europea non si muoverà rapidamente per correggere il tiro della regolamentazione, ogni tentativo della BCE di stimolare il mercato è destinato a cadere nel vuoto. Come minimo, la BCE deve parificare il trattamento in termini di capitale di strumenti come gli RMBS a quello di altri prodotti garantiti da attivi, come i covered bond.
Dopo tutto, senza la domanda di una base clienti più ampia della stessa BCE, l’incentivo a offrire tali strumenti sarà decisamente scarso. In questo caso, il mercato continuerà a risultare stagnante e si sarà sprecata una preziosa occasione per rivitalizzare l’attività di prestito all’economia reale.