Il mondo finanziario è un luogo spaventoso. Debito, disinflazione e crescita in deterioramento hanno afflitto gli investitori nell’ultimo anno, facendo sprofondare i rendimenti obbligazionari in territorio negativo in diversi Paesi. Ma forse la cosa più paurosa è che sono passati otto anni dalla crisi finanziaria e le banche centrali del mondo sviluppato mantengono in vigore una politica monetaria ultra-espansiva. Con i mercati dei titoli governativi che attualmente sembrano un fenomeno da baraccone in una fase avanzata del ciclo economico, la prossima recessione globale potrebbe essere dietro l’angolo. Non serve guardare film horror per Halloween quest’anno: quello che state per leggere fa già abbastanza paura.
- Possedere titoli di Stato è qualcosa di terrificante.
I titoli governativi dei mercati sviluppati sono stati una delle asset class più performanti del 2016, smentendo molte previsioni formulate all’inizio dell’anno. In generale, la mossa giusta è stata detenere titoli con duration lunga, anzi, più lunga possibile. Ogni anno, gli investitori prevedono che i rendimenti obbligazionari aumenteranno, ma ogni anno questi raggiungono nuovi minimi. Certo, ci sono ottimi motivi per aspettarsi un prosieguo di questa tendenza.
Oggi però i mercati obbligazionari si aspettano che la normalizzazione della politica monetaria non avverrà fino a un momento imprecisato in un lontano futuro. La bassa inflazione significa che le banche centrali continuano a sostenere le rispettive economie anemiche e pesantemente indebitate, col risultato che quasi 10 mila miliardi di titoli di Stato del mondo sviluppato offrono un rendimento negativo. Di conseguenza, molte società, incluse le banche, si trovano in difficoltà in questo ambiente di tassi d’interesse bassi (se non negativi). La combinazione di crescita fiacca e regole più rigorose ha incrinato i modelli di business esistenti, mentre nel sistema finanziario le pressioni si intensificano e non è chiaro come si riuscirà a risolvere questi problemi.
- Le banche centrali sono impavide: possiedono gran parte del mercato obbligazionario.
Con gli acquisti consistenti effettuati dalle banche centrali sui mercati dei titoli di Stato attraverso il quantitative easing, i premi alla scadenza (ossia l’extra rendimento che gli investitori esigono per prestare capitali con una scadenza più lunga) sono stati spinti ancora di più in territorio negativo. Una volta era inconcepibile che gli investitori pagassero per il privilegio di prestare denaro a un governo. Oggi questo fenomeno è piuttosto diffuso, non solo sui mercati dei titoli governativi, ma anche per alcune emissioni recenti di obbligazioni societarie.
Non ci solo soltanto le banche centrali alla fiera delle obbligazioni. La domanda di asset a duration lunga continua ad aumentare, da parte di altre grandi istituzioni come i fondi pensione e le compagnie assicurative. Insieme, banche centrali, fondi pensione e assicurazioni hanno frenato ogni possibile correzione sui mercati obbligazionari, riducendo i rendimenti trasversalmente alla curva. L’invecchiamento della popolazione supporta la domanda dei cosiddetti beni rifugio, costringendo gli investitori che aspirano a un rendimento reale positivo a dirottare l’attenzione sugli asset di rischio.
- Se l’inflazione aumenta, o i tassi d’interesse si muovono verso l’alto, attenzione a quello che vedete qui sotto.
Nonostante l’ambiente di rendimenti negativi in cui ci troviamo attualmente, il modo in cui le banche centrali reagiranno al prossimo shock inflazionistico avrà ramificazioni molto estese per gli investitori obbligazionari. Con la duration dei portafogli obbligazionari globali vicina ai 7 anni, gli investitori potrebbero subire pesanti perdite di capitale nel caso in cui i tassi dovessero risalire in misura significativa. Ciò solleva una serie di dubbi importanti. Le banche centrali aumenteranno i tassi in un contesto di stagflazione? Come reagiranno i politici quando le perdite subite dai portafogli costruiti col QE in mano alle banche centrali saranno rese note dai media? L’indipendenza delle banche centrali potrebbe essere minacciata? Dato che molte banche e compagnie assicurative possiedono asset a lunga scadenza, l’instabilità finanziaria è destinata ad aumentare quando le obbligazioni a lungo termine registrano forti perdite di capitale?
Attualmente, il mercato è più concentrato sulla stagnazione secolare che non sui rischi di inflazione, ma con il petrolio in rialzo di quasi il 100% dai minimi di febbraio e il protezionismo commerciale che comincia a farsi strada nei palazzi governativi di tutto il mondo, uno shock inflazionistico mondiale potrebbe essere più vicino di quanto si aspettino in molti.
- I rischi politici nei mercati emergenti possono portare a vendite forzate.
Molti titoli sovrani del mondo emergente sono stati declassati nel corso dell’ultimo anno, principalmente a causa dell’incertezza politica, come dichiarato dalle stesse agenzie di rating. L’impatto del declassamento si è fatto sentire immediatamente, con conseguente intensificazione della volatilità sui mercati obbligazionari.
I forti afflussi verso l’obbligazionario dei Paesi emergenti hanno esposto alcune economie ai rischi politici accentuati all’estero. Un buon esempio di tale fenomeno è il Messico, che risente del clima incerto riguardo all’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Molti mercati emergenti subirebbero ripercussioni anche in caso di rafforzamento del dollaro USA, peraltro possibile dato che il FOMC è di gran lunga l’autorità monetaria di rilievo più vicina ad aumentare i tassi d’interesseA ciò si aggiunge il rischio che un grande Paese del mondo emergente possa perdere il rating di investment grade, provocando la vendita forzata del debito in valuta forte da parte degli investitori esteri.
- Per la Cina si prospetta un’esposizione debitoria enorme. C’è da avere paura.
Le quattro parole più pericolose nella finanza sono “questa volta è diverso”. E se guardiamo ai boom del credito, di solito non fanno una bella fine.
Un parametro osservato dagli economisti per stabilire se il credito stia crescendo troppo è l’eccedenza di credito di un Paese, che misura la differenza fra il rapporto credito/PIL e la rispettiva tendenza a lungo termine. Si è dimostrato un indicatore affidabile: la Banca internazionale dei regolamenti ha dichiarato infatti che “in passato, due terzi di tutte le rilevazioni al di sopra di questa soglia (di 10) sono state seguite da gravi tensioni nel sistema bancario nei tre anni successivi”. In Cina, il “divario” fra credito e prodotto interno lordo attualmente è attestato al 30,1 percento, il livello più alto nel Paese anche guardando indietro fino al 1995, a indicare che il sistema bancario forse è già gravemente sotto pressione.
Nel sistema finanziario cinese, si vedono lampeggiare segnali di allarme giallo e rosso, con ingenti quantità di renminbi finite nel finanziamento di progetti immobiliari su larga scala e di nuova capacità produttiva per i settori industriali dell’economia. Questa combinazione tossica di debito elevato e in crescita in un’economia che sta rallentando tende a sfociare in un deterioramento economico. Mentre le autorità continuano a inseguire la crescita dell’economia, il capitale viene impiegato in progetti non redditizi e capacità in eccesso. Alla fine, i prezzi cominciano a calare e chi ha si trova in mano titoli di debito rischia di subire forti perdite di capitale. Inoltre, gran parte dei finanziamenti disponibili per progetti di investimento è stata reperita attraverso il sistema bancario ombra, che è più esposto ad arresti improvvisi dei flussi di capitale e corse ai depositi.
Buon Halloween.
Lo scorso anno abbiamo discusso su questo blog le nostre considerazioni chiave sulle conferenze del FMI e della Banca Mondiale. Quest’anno non farà differenza. Claudia Calich e io ci siamo avvicendati tra gli eventi che hanno avuto luogo a Washington, partecipando alle svariate discussioni di ampio respiro, pertanto faremo di seguito la stessa cosa. Claudia discuterà dei Paesi Emergenti, mentre io esporrò alcune considerazioni sui mercati sviluppati, oltre che sulla Cina.
1) Cina: In secondo piano, dopo aver determinato i movimenti dei mercati lo scorso anno
In contrasto con lo scorso anno, le conversazioni sulla Cina hanno sorprendentemente dato adito a ben pochi timori. Dopo gli ampi movimenti di mercato e le ondate di volatilità di agosto 2015 e di inizio 2016, (eventi provocati dal ribilanciamento FX in Cina, da un aumento dei default societari e da un’accelerazione dei deflussi di capitale) i timori relativi all’“atterraggio duro” sembrano diminuiti. Piuttosto, si è molto parlato dei progressi a livello di comunicazione della banca centrale e di come la valuta sia rimasta abbastanza stabile rispetto al paniere target quest’anno. Anche il sentiment è rimasto positivo per quel che riguarda il ribilanciamento della Cina verso un’economia dei servizi, che sta guadagnando trazione, in quanto l’espansione del credito e l’aumento di quota di consumo del PIL hanno apportato una base alla crescita, compensando i rallentamenti negli investimenti. Questo clima di fiducia coincide con il rialzo registrato nell’Indice Li Keqiang quest’anno (spesso visto come indicazione “migliore” della crescita economica cinese).
Il Paese non è privo di difetti, ma vista la sua serie di strumenti di politica monetaria, ci si aspetta che questi ultimi riescano ad alleviare qualsiasi shock macroeconomico. La politica si concentrerà pertanto sulla stabilizzazione della crescita al fine di mantenere l’impeto durante la transizione di leadership che avverrà al Congresso del Partito nell’ottobre del prossimo anno. Dopo un periodo di stabilità, si spera che le riforme strutturali (ad esempio, per quel che concerne imprese e banche statali) conquistino il centro della scena.
2) Giappone: L’attuale ampliamento del QE
Le discussioni relative al Giappone sono state incentrate sull’efficacia della politica recentemente annunciata di “QQE più controllo della curva dei rendimenti”, nell’ambito della quale la Banca del Giappone sta spostando l’attenzione dalla base monetaria verso un obiettivo di mantenere i rendimenti decennali al livello recente di 0%, oltre che sull’impegno di superare il suo obiettivo di inflazione del 2%. La mia impressione è che le regole del gioco continueranno ad essere molto più flessibili rispetto agli obiettivi più “fissi” del mondo occidentale. Nel perseguimento dei suoi obiettivi, mi aspetto che la politica monetaria del Giappone continui ad essere una creativa opera in corso (abbiamo già assistito al Quantitative Easing, al Quantitative e Qualitative Easing – QQE- al QQE + politica tassi di interesse negativi e ora al QQE + controllo della curva dei rendimenti). La mia considerazione principale è che la partita sia ancora da giocare. La BoJ non venderà titoli di Stato giapponesi se deve spingere al rialzo i rendimenti decennali, ma acquisterà piuttosto in misura inferiore tramite il suo programma di QQE. Ciò suggerisce che l’obiettivo attuale di acquisti annuali di titoli di Stato giapponesi per un totale di 80 trn di yen dovrà formalmente cambiare col tempo. I tassi a breve termine potrebbero essere adeguati al ribasso, in territorio negativo, qualora diminuissero le aspettative di inflazione. Si è inoltre avuta la sensazione che il rendimento decennale possa essere un obiettivo mobile che evolverebbe nel tempo. L’obiettivo di più lungo termine è chiaramente quello di creare una curva dei rendimenti più ripida, ma sarà interessante vedere se la BoJ ci riuscirà, specialmente in quanto è stato difficile abbastanza per i Paesi sviluppati generare un’inflazione del 2% negli ultimi anni, per non parlare di un superamento.
3) Regno Unito: Incertezza e politica la fanno da padrone
Se avessi guadagnato un dollaro ogni volta che ho sentito pronunciare le parole chiave “Brexit” e “Trump”, sarei tornato con ben più di una scatoletta da 2 dollari di mentine del FMI. È ovviamente comprensibile che questi siano stati i temi di principale interesse per gli investitori, specialmente in quanto le riunioni hanno avuto luogo durante il mese finale della campagna per le elezioni statunitensi e in una fase durante la quale la sterlina ha perso il 2,5% del suo valore rispetto al dollaro (in quanto i commenti di Theresa May durante la conferenza del partito conservatore hanno innescato un aumento dei timori di un’”hard Brexit” o, per dirla con HSBC, “una Brexit continentale” rispetto a una “Brexit tipicamente all’inglese”.) Il timore che il Regno Unito non riesca a ottenere ciò che vuole in fase di trattative è un timore che comprendo bene. Indubbiamente, discutere il problema a Washington mi ha regalato più di un colpo d’occhio, e con una prospettiva non britannica. Per dirla in modo semplice, il Regno Unito si troverà a trattare contro un blocco di 27 Paesi membri dell’UE e per ottenere qualsiasi tipo di concessione necessiterà dell’unanimità dei 27 Paesi. Un ostacolo rilevante. Altre discussioni hanno riguardato il potenziale periodo di stagflazione in cui si potrebbe trovare il Regno Unito, dato il deprezzamento del 18% della sterlina sul dollaro cui abbiamo assistito dal referendum, associato all’attuale incertezza che potrebbe danneggiare in futuro crescita e investimenti.
4) Europa: Continuerà a cavarsela alla meno peggio, ma vanno prese ulteriori misure
L’FMI ha recentemente rivisto le previsioni di crescita di quest’anno per l’Europa dall’1,6% all’1,7% e all’1,5% per il prossimo anno, il rallentamento del 2017 visto in correlazione alla Brexit. Anche se si era parlato dell’introduzione a breve di tagli da parte della BCE, si pensa che la politica monetaria sia stata sufficientemente accomodante e continui ad esserlo per via del tasso di inflazione così ostinatamente modesto, e che, stando alle previsioni, dovrebbe restare al di sotto dell’obiettivo dell’1,1% per il prossimo anno. Il tapering è apparso praticamente fuori discussione.
Per quel che riguarda la politica fiscale, la sfida consiste nel fatto che non ci sia molta disponibilità in termini di spazio fiscale. Anche se la Germania fosse incline ad adottare ulteriori misure, ciò non avrebbe un grande impatto sul resto d’Europa, specialmente sulla periferia, in quanto i legami commerciali sono davvero deboli. Piuttosto, andrebbe prestata maggiore attenzione alle riforme strutturali. I timori principali riguardano argomenti attuali ormai dal 2021/12, in particolare indebitamenti elevati, crediti in sofferenza, rifugiati e immigrazione. La coesione dell’UE potrebbe cadere sotto i riflettori per via delle trattative relative alla Brexit, degli eventi politici all’orizzonte in Italia (il referendum sulla riforma del Senato il 4 dicembre) e delle elezioni del 2017 in Francia e Germania.
Gli incontri hanno rappresentato un’ottima soluzione “one stop shop”, dando la possibilità di ascoltare le opinioni di diversi banchieri centrali, ministri ed economisti, che hanno affrontato tematiche molto rilevanti. Memorabile anche, su base aneddotica, venire a conoscenza delle preferenze culinarie di alcuni dei politici più influenti del mondo. A titolo informativo, Mark Carney ha un debole per la pizza, Wolfgang Schäubl per la cucina francese, Yi Gang è una buona forchetta e mi è davvero piaciuta la risposta di Christine Lagarde, quando le è stato chiesto dove le sarebbe piaciuto andare a cena: “La porterò IO a cena e cucinerò”. Considerazione chiave: le conferenze del FMI e della Banca mondiale hanno sicuramente offerto spunti di riflessione.
In un post recente, Ben ha parlato delle opportunità di valore relativo nel mercato delle obbligazioni societarie investment grade (IG) statunitensi. Oggi il segmento a lunga scadenza di questo mercato appare sempre più attraente, considerando la forte inclinazione attuale delle curve degli spread del credito nello spazio IG in dollari USA.
Il grafico di seguito mostra la curva degli spread di credito, al 30 settembre, dei titoli non finanziari IG denominati in dollari USA in confronto al 50% intermedio delle rilevazioni di spread nell’arco dell’intera storia degli indici obbligazionari, a partire dalla fine del 1996. Gli spread del credito per le scadenze inferiori a 10 anni attualmente sono al di sotto dei valori storici mediani. D’altra parte, il livello di spread per il credito a lunga scadenza sfiora il limite superiore dell’intervallo a 201 punti base (pb), mettendo in evidenza la ripidità attuale della curva. Guardando indietro agli ultimi 20 anni di storia, gli spread nel segmento a lungo termine sono stati inferiori al livello attuale in ben il 71% dei casi.
Il grafico seguente mostra che le valutazioni appetibili, per i titoli societari a lunga scadenza in dollari USA, sono ampiamente distribuite fra diversi settori industriali. Con l’eccezione dell’immobiliare e dei servizi, tutti gli altri comparti nell’area dei non finanziari IG ad almeno 10 anni quotano nel 3° quartile, quindi al di sopra dei rispettivi valori storici mediani, mentre in due settori, energia e salute, il livello è anche superiore. Non è un dato così sorprendente considerando, rispettivamente, la ripresa piuttosto fiacca dei prezzi petroliferi e i rischi politici legati ai prezzi dei farmaci.
Su queste basi, è ragionevole affermare che gli spread del credito societario IG USA a lungo termine oggi offrano un carry dignitoso, soprattutto in un momento in cui su ampie sezioni dell’universo dei titoli governativi, i rendimenti sono bassi se non addirittura negativi. Con valutazioni così attraenti, cosa mai potrebbe andare storto?
Beh, per esempio la duration degli spread elevata delle obbligazioni societarie a lunga scadenza rende questi strumenti particolarmente sensibili a un ampliamento dei differenziali. Il carry legato al credit spread può agire da “cuscinetto” per gli investitori, ma la sua capacità di assorbire le perdite di capitale ha un limite. Nel caso del segmento dei titoli societari USA non finanziari con scadenza di almeno 10 anni, che quota a un livello di spread di 201 pb con una duration dello spread di 13,7 anni, l’ampliamento massimo tollerabile, prima che il carry generato dallo spread del credito sia annullato dalle perdite di capitale, è di 15 pb per anno, a parità di altri fattori. Tuttavia, in un episodio di avversione al rischio a sé stante, come quello che abbiamo visto nel primo trimestre di quest’anno, l’impennata dei credit spread inciderebbe pesantemente sulle valutazioni del credito a lungo termine, almeno temporaneamente.
La duration degli spread, come quasi tutti gli altri fattori di rischio, ovviamente è una lama a doppio taglio. Se gli spread continuano a contrarsi, gli investitori potranno beneficiare di un apprezzamento del capitale in aggiunta al carry dello spread di credito. Le valutazioni attuali dei titoli societari in dollari USA a lunga scadenza implicano una possibile ulteriore compressione degli spread nel medio-lungo periodo. Vista la ripidità della curva degli spread in questo momento, c’è motivo di pensare che il credito a lunga scadenza sia destinato a sovraperformare i corporate a breve termine.
Un sostegno tecnico al credito investment grade a lungo termine in dollari USA potrebbe derivare dal programma di acquisti di titoli societari (Corporate Bond Purchase Scheme o CBPS) lanciato di recente dalla Banca d’Inghilterra. L’universo di obbligazioni ammesse, al 7 ottobre, presenta un’alta componente di titoli a lungo termine, con una scadenza media ponderata di 13,5 anni: circa il 55% delle emissioni idonee al piano CBPS ha infatti una scadenza superiore a 10 anni, mentre per il 25% circa la scadenza supera i 20 anni, anche se di poco. Gli investitori in sterline interessati a questi profili di scadenza potrebbero incontrare difficoltà sempre maggiori ad accedere al programma CBPS a causa del sovraffollamento. Dato che nell’universo investment grade in euro le scadenze sono nettamente inferiori, non avrebbero molta scelta che dirottare l’attenzione sul mercato in dollari USA, accentuando ulteriormente la pressione al ribasso sugli spread del credito nel segmento a lungo termine.
Ultimamente sono stato colto da una forte sensazione di déjà vu. Si parla moltissimo di tassi che non aumenteranno nuovamente in questo ciclo (Stati Uniti), mai più (Europa) o tassi che saranno addirittura ulteriormente tagliati (Regno Unito, Giappone). L’allentamento quantitativo incalza a ritmo sostenuto e potrebbe continuare ad ampliarsi, sia in termini di durata che di inclusione di nuovi tipi di asset. La crescita economica appare in stallo, la redditività societaria sta mostrando cali di ciclo avanzato, l’inflazione resta praticamente non esistente. E potrei continuare. Ovunque troviamo pessimismo relativamente all’economica globale, timori che la politica monetaria abbia, forse ormai da tanto tempo, raggiunto i propri limiti e nuove ragioni per acquistare titoli di Stato e rendimenti privi di rischio.
Di recente parlavo con la collega Anjulie delle valutazioni e delle prospettive dei titoli governativi e, durante la conversazione, mi sono reso conto di vedere forti somiglianze tra la situazione attuale e i primi mesi del 2013. Allora, si parlava di “QE-infinito”, giapponificazione degli Stati Uniti, tassi mai più in rialzo. Qualcun altro vede paralleli? Secondo Anjulie, più a ragione, finora, di quanto creda io, nonostante i rendimenti siano già storicamente bassi, date le azioni straordinarie delle banche centrali, i rendimenti dei titoli di Stato e i tassi potrebbero scivolare ancora di più. Io non mi sono trovato d’accordo e ho detto che forse sarebbe stato utile tornare ad analizzare la “crisi di nervi da tapering” e la “crisi di nervi del bund” del 2013 e 2015. Forse potremmo apprendere qualcosa da questi episodi, da applicare alla situazione attuale? Anjulie ha messo insieme le slide seguenti e mi sembra opportuno discutere i risultati della sua ricerca.
In seguito ai commenti insignificanti di Ben Bernanke in un ripensamento a un discorso di maggio 2013 (nel quale si riferiva al taglio al tasso di acquisti di titoli di Stato e titoli garantiti da mutui; MBS), il mercato obbligazionario si destò per essere colto da una vera e propria crisi di nervi.
Come mostra il grafico, i Treasury decennali registrarono un’ondata di vendite di 50 bps unicamente a maggio, e d 140 punti base nel periodo maggio-dicembre 2013. I bund e i gilt furono trascinati a ribasso coi Treasury, nonostante il fatto che non si stesse parlando di “tapering” in Europa e Regno Unito. Anche le obbligazioni indicizzate furono colpite in modo risolutamente negativo. Il credito invece fu più misto, con un ampliamento iniziale degli spread a maggio poi seguito da un’inversione molto forte a fine 2013, eccetto nei Paesi emergenti, che presero in modo decisamente negativo la parola “tapering”.
Una parola, taper, fu abbastanza per provocare movimenti massicci dei rendimenti dei titoli di Stato. Non un cambiamento a livello di politica monetaria, in quanto i tassi non si mossero e il ritmo degli acquisti QE non cambiò. Pertanto ci siamo chiesti cosa in realtà avesse provocato queste variazioni. A mio avviso, le tesi secondo le quali “questa volta è diverso” erano arrivate a un punto critico (ad es., tesi circa i motivi per cui la politica monetaria non avrebbe mai visto un’inversione, usate per giustificare posizionamenti a livelli estremamente lunghi su governativi e sul reddito fisso in generale). Nel realizzare che i tassi zero e un QE costante non sarebbero necessariamente durati per sempre, sono scappati tutti, e di corsa.
La crisi di nervi del bund dell’aprile 2015 è stata simile in quanto i rendimenti dei titoli di Stato britannici, tedeschi e statunitensi sono aumentati tutti in modo significativo, con i rendimenti dei bund su di 20 punti base in aprile e di 60 bps nel periodo aprile-giugno. La situazione nel credito è stata molto più mista, ed è difficile trarre conclusioni da questo periodo, se non quella di osservare che le obbligazioni bancarie videro un aumento dei rendimenti come un fattore decisamente negativo. Oggi sembra talmente diverso!
Tornando ad analizzare questa situazione è difficile stabilire cosa abbia causato l’ondata di vendite dei rendimenti dei titoli di Stato. I rendimenti sui bund decennali toccarono lo 0,1% e due mesi dopo tornarono a 1%, con una perdita di circa 9 punti percentuali. In questo caso, direi che il posizionamento era divenuto molto lungo, date le tracce di inflazione negativa e l’inizio del QE. A 0,1% le considerazioni di valutazione a lungo termine tornarono alla luce e gli investitori iniziarono a vendere. E gli altri seguirono a ruota. Di nuovo, di fretta. A prescindere dalle ragioni, il sell off ci ricorda un elemento non trascurabile: il sentiment può mutare repentinamente e senza bisogno di un ovvio fattore scatenante.
Come dicevo all’inizio, vedo molte similitudini tra la situazione attuale e le fasi che hanno preceduto questi sell-off. Le tesi del tipo “questa volta è diverso” (sul genere, i tassi non possono aumentare, il QE non si arresta, l’inflazione non è minimamente all’orizzonte, e i titoli di Stato non possono calare) abbondano. Sono usate come giustificazioni per acquistare rendimenti e duration, anche mentre le valutazioni iniziano ad essere estreme. Abbiamo visto la stessa cosa a inizi 2013 e nelle prime fasi del 2015, anche se i punti iniziali per le valutazioni nelle fasi precedenti queste due crisi di nervi non erano estremi quanto oggi. Essere consapevoli di queste similitudini, e rimanere pienamente consapevoli delle valutazioni attuali, a mio avviso, richiede cautela di questi tempi.
Seguire il flusso di notizie sull’economia globale è deprimente. Chiedete a un economista cosa gli viene in mente pensando alla parola “Europa” e probabilmente vi risponderà tassi d’interesse negativi, deflazione e ansie per il debito. Il risultato non è molto diverso se provate a parlare delle prospettive economiche degli Stati Uniti (“le elezioni imminenti preoccupano”), del Giappone (“la BoJ è ai limiti della politica monetaria”), del Regno Unito (“la fiducia delle imprese e dei consumatori risentirà della Brexit”) o della Cina (“il sistema bancario potrebbe implodere”). A questo punto del ciclo, sembra che ci sia poco da stare allegri.
Il pessimismo fa indissolubilmente parte della psiche umana ed è per questo che i giornali puntano sempre su titoli allarmisti. A pensarci, i nostri ricordi della storia recente sono pieni di previsioni apocalittiche, come la guerra nucleare, i virus a trasmissione aerea e il millennium bug. Il fatto che quelle previsioni non si siano avverate non significa che i timori attuali siano infondati. Ci sono però buoni motivi per essere ottimisti sul futuro dell’economia globale, a dispetto del clima cupo di questo periodo.
Il mondo è più connesso che mai. Internet sta cambiando il modo in cui le persone lavorano, creano e condividono idee. Si stima che oggi possa accedere a internet da casa il 46% della popolazione mondiale, mentre nel 2000 poteva farlo solo il 6,8%. Le previsioni dicono che entro il 2017 saranno online circa 3,4 miliardi di persone.
La diffusione dell’accesso alla rete è importante nella misura in cui favorisce la crescita economica sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Internet facilita i flussi di informazioni e l’innovazione, l’accesso ai capitali finanziari e l’imprenditoria e dà impulso all’occupazione. In ultima analisi, promuove livelli di produttività più elevati della forza lavoro e un uso più efficiente del capitale. In un rapporto intitolato The Value of Connectivity (il valore della connettività), Deloitte ha stimato che il maggiore accesso a internet nel mondo sviluppato potrebbe generare 2,2 trilioni di dollari di PIL in più (l’equivalente dell’economia italiana) e oltre 140 milioni di nuovi posti di lavoro (quasi quanto gli abitanti di tutta la Russia).
La possibilità di connettersi alla rete potrebbe svolgere un ruolo rilevante anche nella riduzione della povertà estrema. Secondo le stime della Banca Mondiale, il numero di persone nel mondo che vivono in questa condizione (con meno di 1,90 dollari al giorno) è sceso al di sotto del 10 percento della popolazione globale nel 2015. I tassi di povertà si sono drasticamente ridotti nel corso degli ultimi 35 anni, anche grazie ai vantaggi derivati dalla diffusione dell’accesso a internet nel mondo in via di sviluppo. Con il profilo demografico migliore e la ricchezza in aumento per le classi medio-basse, i Paesi emergenti hanno la capacità di generare alti tassi di crescita economica nel lungo periodo.
Internet ha determinato anche l’ascesa degli ultra-ricchi, a sua volta accompagnata dalla nascita di molte iniziative filantropiche ambiziose. Ultimamente, la Chan Zuckerberg Initiative (di Facebook) ha annunciato l’obiettivo di “curare, prevenire e gestire tutte le malattie entro la fine del secolo”. Al di là della grandiosità, l’annuncio ha attirato l’attenzione sul modo in cui gli scienziati stanno unendo le forze per tentare di vincere sfide titaniche nel comune ambito della “ricerca di base”, che si dedica principalmente alla scoperta di nuove soluzioni scientifiche.
Puntare sulla ricerca di base ha già prodotto risultati positivi, come lo sviluppo della tecnologia laser, del GPS, dei display multi-touch e dei motori di ricerca, senza contare la scoperta del primo gene responsabile del cancro nell’uomo. Ma ci sono anche notevoli ricadute economiche positive: negli Stati Uniti, l’Istituto nazionale di sanità (National Institute of Health) stima che ogni dollaro speso nella ricerca di base genera un ritorno variabile da 10 a più di 80 dollari. I filantropi facoltosi sono sempre più propensi a finanziare la ricerca di base in collaborazione con i governi e i progressi su questo fronte potrebbero migliorare la qualità della vita per miliardi di persone in tutto il mondo. Nuove scoperte, nuove industrie, nuovi posti di lavoro.
Certo, è difficile misurare i benefici presenti e futuri di tante innovazioni tecnologiche in termini di prodotto interno lordo. Il PIL è pensato per misurare beni che sono stati scambiati a un certo prezzo di mercato e non può cogliere la dispersione delle idee né il valore della conoscenza acquisita da qualcuno che accede a Wikipedia per la prima volta, o i risparmi di tempo e costi che derivano dal non dover andare in un’agenzia di viaggi per prenotare un volo. Man mano che i prodotti diventano più economici (se non addirittura gratuiti) grazie all’innovazione tecnologica, è possibile che il PIL riesca a misurare sempre meno il progresso dell’economia mondiale. Il divario fra quello che si può misurare e la nostra esperienza reale è destinato ad ampliarsi (per un approfondimento su questo tema, rimandiamo alla nostra intervista con Diane Coyle, autrice di GDP: A Brief but Affectionate History).
I vantaggi di internet, gli standard di vita migliori a livello globale e i possibili progressi nella ricerca di base dovrebbero bastare per curare il catastrofismo diffuso fra gli operatori di mercato. Per quanto questi sviluppi possano rivelarsi inefficaci contro le ansie legate ai limiti della politica monetaria nel breve periodo, fanno comunque presagire che molti continueranno a prosperare ancora a lungo.