I mercati obbligazionari globali sono balzati in avanti dopo che la Federal Reserve (Fed) statunitense ha segnalato mercoledì cosa stavano prezzando da mesi i mercati finanziari: la banca centrale ritirerà molto probabilmente i suoi piani di aumento dei tassi quest’anno, dato il rallentamento dell’economia globale, i prezzi del petrolio più bassi e l’inflazione interna generalmente contenuta. La Fed ha anche indicato che il suo bilancio potrebbe non ridursi quanto previsto, in quanto ha bisogno di riserve per soddisfare la crescente domanda delle banche nazionali (obbligate a possedere più Treasury per rafforzare le loro casse). Questo messaggio dai toni molto accomodanti ha ricordato agli investitori il 2016, quando la precedente presidente della Fed Janet Yellen era in procinto di iniziare a normalizzare i tassi 8 anni dopo la crisi finanziaria, ma si astenne poi dal farlo, offrendo uno sfondo favorevole per le attività di rischio (altri dettagli nel prosieguo).
I titoli statunitensi indicizzati all’inflazione hanno registrato un rimbalzo in quanto l’assenza di tassi più elevati potrebbe alimentare l’inflazione, mentre il differenziale di High Yield (HY) statunitense sul Treasury è sceso a 430 punti base (bps), dai 537 bps dell’inizio di quest’anno. Le valute dei Mercati Emergenti (EM)si sono impennate data la battuta d’arresto del dollaro: la rupiah indonesiana è salita più dell’1% ieri, con l’avvio, da parte del Paese, di aumenti difensivi dei tassi di interesse lo scorso anno, al fine di proteggere la sua valuta mentre la Fed stava alzando i tassi, quindi gli investitori stanno ora ipotizzando la possibilità di tagli ai tassi quest’anno. Anche i titoli sovrani hanno sovraperformato, con il rendimento del Treasury a 10 anni sceso al 2,66%, giù dal 2,78% della scorsa settimana. Bene il petrolio.
Su:
I mercati battono la Fed, ancora una volta: Negli ultimi cinque anni, gli investitori hanno sfidato le ottimistiche previsioni di crescita e di inflazione della Fed, prezzando una probabilità di contrazione monetaria molto più bassa rispetto alla banca centrale. Ogni anno hanno avuto ragione: l’inflazione statunitense non è riuscita ad ottenere una trazione reale e la crescita alimentata da tagli fiscali sta iniziando a perdere terreno. Non è la prima volta che la Fed ritorna sui propri passi: nel 2016, la Yellen stava pianificando alcuni rialzi dopo l’aumento nel dicembre 2015 – il primo rialzo dal 2006. La Fed, tuttavia, fu costretta a cambiare programma poiché il referendum sulla Brexit, il crollo dei prezzi del petrolio, le tensioni sulla liquidità di una grande banca europea e il rallentamento della Cina minacciarono la crescita globale e mantennero l’inflazione a livelli contenuti. Lo stesso schema sembra ora in gioco: bassi prezzi dell’energia, un rallentamento in Cina e tensioni in Europa (ancora Brexit). Gli investitori sono stati rapidi ieri ad accaparrarsi gli asset di rischio, data la loro reazione ad una “Fed in attesa” nel 2016: come si vede nel grafico, gli spread HY registrarono una contrazione di 400 bps nel 2016, e anche il premio richiesto dagli investitori per detenere debito sovrano EM calò. I livelli di spread sono ora più bassi, ma alcuni investitori ritengono che la cedola più alta tipicamente offerta dalle attività di rischio potrebbe offrire rendimenti totali positivi in assenza di un calo dei prezzi derivante dall’aumento del tasso base.
HY: Fisso o variabile? Il debito HY globale a tasso variabile ha registrato performance migliori rispetto all’HY a tasso fisso negli ultimi sei giorni di negoziazione, in quanto alcuni investitori si stavano ancora aspettando un aumento dei tassi da parte della Fed quest’anno. Resta da vedere se questo cambierà in seguito alla dichiarazione di mercoledì, in quanto ci sono ancora in gioco diverse sfide: le tensioni geopolitiche o l’intensificarsi delle guerre commerciali globali che potrebbero determinare tassi più elevati, un ambiente normalmente propizio al debito a tasso variabile. Gli investitori potrebbero anche scegliere il mercato a tasso variabile, dal beta inferiore, se l’economia peggiorasse più del previsto. Per un’analisi sulle due asset class e una simulazione di come ciascuna di esse risponderebbe a variazioni di tassi e spread, non perdetevi il blog del nostro gestore James Tomlins:L’high yield nel 2019: tasso fisso o variabile?
Giù:
Dollaro USA e rendimenti USA – modalità di separazione: La correlazione tra il dollaro USA e i rendimenti del Tesoro a 2 anni è scesa a livelli quasi privi di significato, dopo essere stata più forte a 0,45 (su un massimo di 1) all’inizio degli anni 2000 – da allora è sempre diminuita. Come si vede nel primo grafico, il rapporto tra i due sembra essersi interrotto negli ultimi tre anni, poiché i rendimenti del Treasury a due anni (linea blu) sono aumentati, riflettendo una forte crescita economica, ma il dollaro (linea arancione) non ha eguagliato questa mossa, rimanendo circa allo stesso livello. La valuta statunitense non è riuscita a rispecchiare il miglioramento dell’economia interna, frenata dai crescenti disavanzi fiscali ed esterni e anche perché il renminbi cinese sta sfidando lo status di supremazia mondiale del biglietto verde. Disposta ad internazionalizzare la sua valuta, la Cina sta incoraggiando altri paesi a sottoscrivere contratti su materie prime in renminbi e a prestare grandi quantità di denaro ai paesi asiatici e africani nella sua valuta. Alcuni investitori sostengono che questa sfida richiederà ancora anni per concretizzarsi, mentre altri si concentrano sulla minore domanda di asset statunitensi da parte di Cina e Giappone, le cui partecipazioni in Treasury sono in calo a causa dei costi di copertura attualmente elevati (conseguenza dell’elevato differenziale dei tassi di interesse). Se il dollaro USA, determinato in gran parte dalla domanda estera, non è all’altezza delle mosse economiche statunitensi – ciò significa che il resto del mondo è meno sensibile a quanto sta accadendo negli Stati Uniti?
Aspettative di inflazione in Europa: guastafeste! In un contesto di propensione al rischio a gennaio, l’unico indicatore in costante calo è quello delle aspettative di inflazione europea, scese mercoledì a 1,495%, il livello più basso dal 2016. I dati economici europei restano poco rosei, con il ministro dell’economia tedesca che ha tagliato le previsioni di crescita del Paese per quest’anno all’1,0%, giù dal precedente 1,8%. Con l’economia francese ostacolata dalle attuali proteste, la protratta battaglia dell’Italia con Bruxelles sul suo deficit di bilancio, e la possibilità di una Brexit senza accordo, pochi investitori sono al momento disposti a scommettere sulla crescita europea. Quattro anni dopo il lancio di un programma di stimolo monetario di diversi miliardi di euro da parte della BCE, le aspettative di inflazione nella regione sono ancora più modeste di allora.
Come tutti sappiamo, il 2018 è stato un anno difficile per quasi tutte le asset class, non da meno per le obbligazioni high yield (HY). La correzione durante il quarto trimestre è stata particolarmente rapida e brutale rispetto alle recenti fasi di lieve volatilità sotto l’egida della generosità delle banche centrali. Nel 2018 l’HY globale ha perso alcuni punti percentuali in valuta locale, mentre il mercato dei titoli a tasso variabile (FRN), dal beta più basso e con un numero superiore di titoli senior garantiti, ha mostrato migliore tenuta, con una perdita poco inferiore all’1%.
Ciò ha contribuito a ricordarci che il mercato HY FRN (che condivide molte caratteristiche di rischio con il mercato dei prestiti privilegiati, compresa la sua natura di garanzia privilegiata e la cedola variabile) è in genere meno volatile delle tradizionali obbligazioni HY a tasso fisso nei periodi di correzione di mercato.
Guardando al 2019, qual è quindi la situazione per gli investitori?
Dovrebbero favorire le obbligazioni a tasso variabile o a tasso fisso HY?
Per cercare di rispondere a questa domanda, ho delineato di seguito alcuni scenari di performance totale basati su diverse variazioni degli spread e dei tassi di interesse. Tali scenari tengono conto anche di una stima dei costi di copertura valutaria per un anno al fine di ottenere un risultato interamente coperto. Ho ipotizzato un tasso di default dell’1,5%, con un tasso medio di recupero del 30% per il mercato HY fisso e un più elevato tasso del 60% per il mercato variabile. Suppongo inoltre che qualsiasi variazione dei rendimenti sia solo una mossa di inclinazione/appiattimento, stando a significare che non dovrebbero esserci ulteriori aumenti dei tassi nei 12 mesi successivi. Si vedano di seguito i 3 scenari – per le obbligazioni FRN e HY completamente coperte e denominate in dollari statunitensi, euro e sterline.
Cosa possiamo dedurre da quanto sopra?
- Per gli investitori in USD, il rapporto di rischio/rendimento da una prospettiva assoluta inizia ad essere interessante: il breakeven sugli spread è sufficientemente allettante da render necessario un ampliamento di spread di oltre 200 bps prima che il mercato FRN inizi a generare perdite. Per fornire un contesto, ciò significa spread di circa 650 bps e un rendimento complessivo di quasi 9%, indubbiamente un livello che prezzi una recessione. Nel caso di un mercato a reddito fisso con dati spread più elevati (con una sensibilità maggiore alle variazioni di spread), le perdite subentrano prima, a un livello di 150 bps (come cerchiato). Nel complesso, ciò implica un premio di rischio/rendimento piuttosto allettante, con performance potenziali di somme elevate a una cifra e somme a due cifre. Per gli investitori in euro e in sterline, la situazione è marginalmente meno vantaggiosa, dati i rendimenti di partenza inferiori. In Europa, in particolare, ci sono molte cifre in rosso.
- In uno scenario rialzista, con una forte contrazione degli spread e un rimbalzo dei rendimenti, la modesta duration tassi di interesse degli FRN funziona piuttosto bene in quanto qualsiasi aumento dei rendimenti dei titoli di Stato non avrebbe un impatto sui risultati (dato che vengono adeguati periodicamente per corrispondere al rendimento governativo), mentre la duration più lunga del mercato a tasso fisso agisce da freno negativo in caso di aumento dei tassi (cerchio blu).
- In uno scenario ribassista, con spread più ampi e rendimenti inferiori, anche la duration di spread inferiore del mercato FRN gioca a suo favore rispetto al mercato a reddito fisso (cerchio blu tratteggiato).
- L’HY a tasso fisso genera una sovraperformance se sia i rendimenti che gli spread scendono (rettangolo nero), cosa che potrebbe essere coerente forse con un ritorno a stimoli monetari come il Quantitative Easing (QE).
Dato il vigore relativo delle economie statunitense e globale, un ritorno di QE è piuttosto improbabile – a mio avviso, questo dovrebbe apportare un vantaggio ai FRN negli scenari di performance più probabili. Devo precisare che questo si basa su diverse ipotesi, quindi dovrebbe essere considerato come teorico.
Inoltre, ci sono altre variabili che avrebbero un impatto, tra cui la mancanza di capitale al rialzo delle FRN, in quanto i loro scambi sono prossimi al valore nominale, e qualsiasi aumento dei tassi di inadempienza superiore all’1,5%. Detto questo, la resilienza intrinseca dei titoli FRN, grazie alla duration ridotta in termini di spread e tassi di interesse, potrebbe rappresentare un vantaggio per l’asset class nel 2019. Forse sarà un anno positivo per l’high yield a tasso variabile.
Non che avessimo bisogno di rassicurazioni da parte di nessuno, ma la decisione del governo britannico, secondo cui gli amministratori fiduciari dei fondi pensione devono tenere conto dei criteri ambientali, sociali e di governance (noti come criteri ESG) finanziariamente rilevanti nelle loro valutazioni, aiuta sicuramente coloro che ritengono che la sostenibilità stia diventando una necessità ancor più che una scelta – sia per la società che per gli investitori.
A mio avviso, un’“ottica ESG” può servire a monitorare rischi qualitativi e valutare lo stile di gestione corporate così come le priorità, al fine di evitare drawdown idiosincratici sui singoli titoli. Le considerazioni in termini di criteri ESG sono particolarmente importanti per gli emittenti High Yield (HY), che normalmente presentano più leva e che potrebbero dunque più probabilmente amplificare una situazione sia in senso positivo che negativo.
Uno studio della Barclays ha di recente rilevato che i portafogli HY con un approccio fortemente incentrato sull’ESG hanno tendenza a sovraperformare, con la componente di governance come l’elemento di maggior rilevanza. Sembra un punto valido già a intuito, in quanto prestare denaro a società ben gestite, i cui interessi sono allineati a quelli degli obbligazionisti, dovrebbe nel lungo termine essere fruttuoso.
Dovremmo anche ricordarci che quel che gioca a favore del corso azionario, non sempre va a vantaggio del rischio di credito. Prendiamo ad esempio una proprietà di private equity che incentiva la massima leva finanziaria e/o i maggiori rendimenti per gli azionisti.
Se da una parte i legami con la performance dei fattori ambientali e sociali sono meno chiari, continuo a sostenere che le imprese debbano anche considerare l’esternalità di pratiche ambientali e sociali poco soddisfacenti nel lungo termine. Il risparmio a breve termine dato dai tagli salariali o dall’evitare costi di risanamento, è sempre più vanificato dai danni finanziari sul lungo termine recati da tali azioni.
Gli investitori si stanno concentrando sempre più su questi fattori qualitativi e ciò, assieme all’esplosione di dati importanti, sta facendo emergere un livello di trasparenza da far arrossire in molti. Un comportamento eccessivo sarà punito più rapidamente in quanto le informazioni non finanziarie sono ormai prontamente disponibili e sono misurabili in tempo reale. Ad esempio, la presenza dei social media implica che anche in aree remote dell’Africa, una compagnia che lascia una miniera piena di sostanze inquinanti potrebbe vedersi togliere la garanzia di accedere a una nuova miniera in Cile. È già emersa una serie di fornitori di dati relativi all’ESG per soddisfare la crescente domanda e prevedo che tali servizi conosceranno un buon successo.
Tuttavia, gli asset manager hanno bisogno di ben altro, oltre alla ricerca ESG da terze parti. Ecco cinque raccomandazioni che potrebbero essere utili:
- Definire i fattori ESG finanziariamente rilevanti: La definizione del fornitore di dati ESG di fattori ESG rilevanti per un’industria e il loro peso nella valutazione complessiva in termini di criteri ESG è altamente soggettiva e potrebbe differire dall’opinione dell’asset manager. Per esempio, il livello di qualità di governance di MSCI si concentra su tematiche quali composizione del consiglio e remunerazione dei dirigenti. D’altra parte, Sustainalytics dà la priorità ad altri fattori, tra cui la gestione da parte della compagnia di tematiche ambientali e sociali, che sfociano in esiti diversi. Dato che è sempre maggiore il numero di fornitori di soluzioni ESG, saranno disponibili sempre più metodologie per gli utenti di dati, e ciò potrebbe potenzialmente provocare risultati discordanti. Gli analisti di settore interni e con lunga esperienza ricoprono a mio avviso la posizione migliore per poter valutare quelli che considerano i temi ESG più finanziariamente rilevanti per un’industria.
- Riesaminare: I fornitori di dati ESG tendono a valutare migliaia di emittenti, cosa che riduce le revisioni del punteggio a circa una volta l’anno – e in tal caso, sembra esserci una probabilità minima di variazione del rating. Lo studio Barclays afferma che un emittente con un punteggio ESG di alto livello all’inizio di un anno aveva una probabilità del 79% di mantenerlo un anno dopo (secondo MSCI), e dell’88% (secondo Sustainalytics). Questo approccio favorevole allo status-quo mi fa pensare che i punteggi ESG possano essere più un indicatore reattivo che un indicatore anticipatore – cosa che dovrebbero essere. Ancora una volta, credo che gli analisti interni che inseriscono la ricerca aggiornata in un quadro ESG su misura per monitorare le (potenziali) partecipazioni potrebbero essere più efficienti di qualsiasi altra fonte esterna.
- Impegnarsi: L’attività di coinvolgimento non viene svolta dai fornitori di dati ESG ed è per questo motivo che i gestori patrimoniali devono intervenire e dialogare con le aziende per garantire che alle parole seguano i fatti. Rispetto alle imprese Investment Grade (IG), gli emittenti HY hanno maggiori probabilità di entrare in contatto con gli obbligazionisti e di negoziare i termini di un’emissione, dato che il mercato del debito è spesso la fonte primaria di finanziamento. I grandi istituti di credito HY dovrebbero essere nella posizione di avere un certo impatto, aiutando a guidare il cambiamento.
- Attenzione al bias dell’informazione: Gli emittenti IG tendono ad avere un rating ESG migliore rispetto ai loro omologhi HY, inducendo molti investitori ad ipotizzare una correlazione positiva tra credito ed ESG – come si vede nel grafico sottostante:
In linea di principio ha senso che una migliore performance ESG porti a profitti più elevati, e quindi a un bilancio più forte e a un rating migliore, ma non credo che questa logica sia valida, dato che i dati ESG non sono ancora efficacemente quotati sui mercati.
Penso che la migliore performance dell’investment grade in ambito ESG sia dovuta in gran parte a un bias delle informazioni: Le società IG sono solitamente dotate di un dipartimento PR che illustra gli sforzi ESG dell’azienda; al contrario, e secondo un recente rapporto PRI (“il coinvolgimento ESG per gli investitori obbligazionari”), solo il 20% degli emittenti globali HY ha esaminato e confermato la sintesi di MSCI dei dati utilizzati per i loro punteggi ESG, scendendo ad appena il 3% per le società private. Ciò può significare che i dati ESG dell’HY potrebbero non cogliere il quadro completo e quindi non essere sufficienti al fine di trarre conclusioni. I gestori patrimoniali con grandi team di analisti interni possono essere in grado di accedere a dati più rilevanti ma meno disponibili per giungere a una conclusione più completa.
In conclusione, mentre i fornitori di dati ESG possono offrire un quadro iniziale e qualche orientamento, i gestori attivi devono aumentare le loro capacità ESG per massimizzare l’alfa per i loro investitori.
Pochi investitori avrebbero scommesso sulle obbligazioni societarie dei mercati emergenti (EM) quindici anni fa. Nel 2004 l’universo delle obbligazioni societarie EM esterne (ovvero in valuta forte) era relativamente modesto, pari a circa 270 miliardi di dollari. Nel 2009 l’asset class era più che raddoppiata, raggiungendo i 600 miliardi di dollari USA, grazie alla forte espansione economica che ha interessato tutte le economie in via di sviluppo, in particolare i paesi BRIC. Dopo la crisi finanziaria globale, le obbligazioni societarie dei mercati emergenti hanno registrato la crescita più forte tra i mercati del reddito fisso (Grafico 1.), con l’universo delle obbligazioni societarie EM esterne che alla fine dello scorso anno è salito a 2,2 trilioni di dollari USA. L’ascesa delle obbligazioni societarie EM ha fatto di questo segmento un’asset class a sé stante (Grafico 2.) e quindi una nuova area di interesse per gli investitori di credito globali.
Ad esempio, le obbligazioni EM HY rappresentano oggi il 23% delle opportunità di investimento globali ad alto rendimento, rispetto ad appena l’8% nel 2009; sono fiducioso che la quota di EM negli indici globali continuerà ad aumentare nel medio termine. Anche l’universo EM corporate bond, molto più ampio in valuta locale, ha registrato una crescita impressionante (+300% dal 2009) e si avvicina agli 8 trilioni di dollari USA, paragonabile alle obbligazioni sovrane locali EM e superiore al mercato investment grade statunitense. Tuttavia, la porzione “investibile” di questo mercato rimane circoscritta per gli investitori globali.
Questo articolo esplora i tre segmenti che meritano di essere monitorati nei prossimi anni: l’universo “maturo” delle obbligazioni societarie esterne EM, il suo segmento ad alto rendimento in rapida crescita e l’enorme ma illiquido mercato locale delle obbligazioni societarie EM.
Grafico 1 (a sinistra). Grafico 2 (a destra).
Obbligazioni societarie EM esterne: un mercato consolidato.
L’esorbitante crescita delle obbligazioni societarie EM denominate in dollari USA nell’ultimo decennio (Grafico 3.) è stata lungamente attesa, soprattutto in considerazione delle dimensioni modeste dei mercati EM a reddito fisso rispetto al loro contributo al PIL mondiale (oltre il 50%). L’emissione in dollari USA e in altre valute forti, è stata il risultato di tre fattori distinti. In primo luogo, alcuni emittenti EM operano in settori “dollarizzati” (ad esempio, materie prime) o in Paesi con valute ancorate, come ad esempio gli Emirati Arabi Uniti, quindi preferiscono naturalmente prendere a prestito in una valuta che non crea un disallineamento FX nel loro bilancio.
In secondo luogo, il fabbisogno di finanziamento per gli investimenti è aumentato in linea con l’espansione economica dell’area EM, ma i mercati del debito locale (prestiti bancari e mercato obbligazionario in valuta locale) mancavano di profondità. I consistenti finanziamenti a lungo termine per le grandi imprese – come i servizi di pubblica utilità – in generale non erano disponibili a livello locale. Gli emittenti EM hanno pertanto iniziato a guardare ai mercati obbligazionari internazionali. In terzo luogo, i fattori tecnici di mercato sono migliorati con l’emergere della domanda da parte degli investitori obbligazionari globali, oltre che dei gestori di EMD dedicati, per via dei vantaggi di diversificazione, alla luce della crisi finanziaria globale che ha colpito molti portafogli.
Grafico 3. (Sinistra) / Grafico 4. (destra)
Da un punto di vista creditizio, la crescita dello stock di obbligazioni è stata trainata in egual misura dalle emissioni investment grade (IG) e high yield (HY). Tuttavia, la divisione favorisce ancora i crediti IG. A gennaio 2019, il credito HY rappresentava il 36% dello stock di obbligazioni (43% per l’indice CEMBI BD di JP Morgan). Gli emittenti quasi sovrani rappresentano circa la metà dell’universo e valgono ora poco più di 1 trilione di dollari USA – una dimensione simile a quella delle obbligazioni sovrane EM in valuta forte. Per saperne di più sulle obbligazioni quasi sovrane, vi rimando al seguente blog: https://bondvigilantes.com/italiano/panoramic-outlook/quasi-sovrani-nei-paesi-emergenti/?noredirect=it_IT
Una tendenza notevole nell’asset class è stata rappresentata dall’ingente aumento delle obbligazioni asiatiche come quota dell’universo (Grafico 4.), trainato dall’enorme emissione dalla Cina negli ultimi 10 anni. Escludendo l’Asia, l’asset class mostra una crescita più modesta dal 2011 (+83%) e solo marginalmente in aumento rispetto al 2014 (+6%). Le obbligazioni societarie esterne dell’Asia, compresa la categoria quasi, a fine 2018 ammontavano a 1.1 trilioni di dollari USA – che è superiore all’intero universo delle obbligazioni sovrane esterne EM – e al 51% del totale delle obbligazioni societarie esterne EM. Ciò è in forte contrasto con il fatto che l’Asia rappresenti solo una piccola parte dello stock di obbligazioni sovrane esterne EM. Con i suoi 650 miliardi USD di obbligazioni societarie esterne, la Cina rappresenta il 30% dell’asset class (sebbene con un tetto massimo dell’8,1% nell’indice CEMBI BD) ed è la maggiore economia tra i 50 Paesi dell’indice EM. Anche Messico (8,8% del totale dello stock di obbligazioni), Brasile, Corea, Russia, Hong Kong, Emirati Arabi Uniti e India apportano contributi importanti. Grazie a queste diverse aree geografiche, solo un’offerta netta negativa proveniente dalla Cina modificherebbe la dimensione dell’asset class.
In termini di settori, come misurato dall’indice CEMBI BD – Grafico 5., l’impressionante crescita dell’Asia ha avuto scarso impatto sulla diversità dell’asset class. I finanziari rimangono un terzo dell’indice e, a differenza dei finanziari dei mercati sviluppati, sono meno esposti al rischio di contagio (ad esempio, è improbabile che le banche colombiane siano colpite da una crisi bancaria in Indonesia), sebbene le istituzioni finanziarie cinesi siano di importanza sistemica per l’Asia. Le materie prime rappresentano circa il 20% (Petrolio e gas 14%, Metalli e minerario 7%), di solito meno di quanto la maggior parte degli investitori si aspetterebbe da un debitore EM. TMT e Utility sono anch’essi settori importanti e, in linea con l’espansione economica, il settore Consumer (9%) ha registrato una crescita più rapida rispetto ai settori industriali.
Grafico 5. (sinistra) Settori / Grafico 6. (destra) Performance vs Vol
Guardando alla performance (Grafico 6.), le obbligazioni societarie esterne EM hanno generato rendimenti discreti nella loro storia relativamente breve. Dal 2004, il rendimento totale dello scorso anno di -1,65% (indice JP Morgan CEMBI BD) è stato solo il terzo anno con rendimenti negativi (dopo il 2008: -16,8% e 2013: -1,3%) mentre il rendimento cumulativo nel periodo (dal 2004 all’ottobre 2018) è stato del 145%. Il rendimento totale annualizzato dell’indice è stato pari al 6,1%, mentre la volatilità annualizzata si è attestata al 7,9%. Per un’asset class con un rating medio BBB-, i rendimenti sembrano superiori a quelli delle controparti dei mercati sviluppati, ma anche la volatilità. Lo Sharpe Ratio di 0,6 dell’asset class appare nella media, se non migliore, rispetto ad altre classi di attivi nello stesso periodo (2004 – ottobre 2018) ma inferiore al debito esterno sovrano EM (0,7), US HY (0,7) o US IG (0,7).
Obbligazioni HY dei mercati emergenti: l’importanza delle dimensioni.
L’aumento sostanziale delle obbligazioni societarie esterne EM ha avuto implicazioni per altre classi di attività, in particolare per l’High Yield globale. Storicamente, le società dei mercati emergenti sono state una piccola allocazione nei mandati globali di investimento ad alto rendimento, molti dei quali si concentrano principalmente sul mercato statunitense seguito dal mercato europeo delle obbligazioni high yield. Nel 2009 gli investitori hanno giustificato la minore allocazione nella regione EM con un peso dell’8% dell’indice (grafico 7). Nel 2015 l’HY EM ha superato l’HY europeo nell’indice per due ragioni principali. In primo luogo, le emissioni ad alto rendimento EM sono aumentate significativamente tra il 2009 e il 2015, in linea con il resto del mercato obbligazionario esterno EM. In secondo luogo, molte delle obbligazioni EM esistenti sono state declassate a HY dopo che molti emittenti sovrani hanno perso il loro status di investment grade (ad esempio Brasile e Russia) a seguito del Taper Tantrum. In quanto tali, nuovi emittenti, come la compagnia petrolifera nazionale brasiliana Petrobras o le banche turche, sono apparsi nell’indice globale ad alto rendimento.
Grafico 7 (sinistra) / Grafico 8 (destra)
Oggi, le obbligazioni EM HY rappresentano il 23% dell’indice Global High Yield di BofAML e le prospettive indicano una quota crescente di EM in futuro. Un altro elemento interessante è la composizione dell’indice, che dimostra che i mercati emergenti non sono piccoli pesi nell’indice. Gli emittenti dei mercati emergenti rappresentano il 20% del valore di mercato dei 150 principali emittenti (che rappresentano il 47% dell’indice globale ad alto rendimento). Inoltre, Petrobras e la società farmaceutica israeliana Teva sono rispettivamente il primo (2,1%) e il quinto (1,2%) dei maggiori emittenti dell’indice. Sorprendentemente, gli investitori statunitensi evitano comunque gli EM con una partecipazione stimata del 2,2% di obbligazioni EM HY nei portafogli ad alto rendimento statunitensi. Ma ciò non sembra essere determinato dalle valutazioni, dal momento che la gamma delle partecipazioni EM HY è oscillata tra il 2% e il 4% dal 2011.
La posizione sottopesata si spiega piuttosto con il bias geografico e settoriale dei gestori high yield americani ed europei.
Ciò tende ad essere confermato da partecipazioni significative sia in paesi geograficamente vicini al paese di origine (ad es. Messico) o in settori di portata globale (ad es. materie prime, TMT) e per i quali gli analisti e i gestori di portafogli HY non-EM si sentono più a proprio agio. La minore qualità del credito percepita e l’ulteriore approccio top-down richiesto per l’analisi delle obbligazioni societarie EM sono anch’essi fattori che potrebbero spiegare perché l’asset class rimane sottorappresentata.
Tuttavia, il rischio di insolvenza dell’ EM HY (grafico 9.) e i valori di recupero non sembrano peggiori di quelli delle controparti statunitensi ed europee. Per saperne di più clicca qui: https://bondvigilantes.com/blog/panoramic-outlook/emerging-market-corporate-bonds/ Sul fronte dei rendimenti, l’andamento dal 2008 suggerisce che le performance degli Stati Uniti e dell’ EM HY possano essere molto diverse (Figura 8.). Poiché le dimensioni dell’HY EM continuano ad aumentare, è probabile che l’asset allocation all’interno dei fondi obbligazionari globali HY diventi un motore molto più importante della performance futura.
Grafico 9.
Obbligazioni societarie dei mercati emergenti in valuta locale: il mercato di nicchia.
Può essere sorprendente per gli investitori dei mercati sviluppati, ma la dimensione dell’universo obbligazionario in valuta locale dei mercati emergenti (sovrani + imprese) è quasi 5 volte superiore a quella del mercato obbligazionario esterno (Figura 10.). Ma, come sempre nei mercati emergenti, non fatevi ingannare dalle apparenze. Il mercato in più rapida crescita è stato il mercato delle obbligazioni societarie in valuta locale, che ora ammonta a circa 7,8 trilioni di dollari equivalenti, a fronte di 2,2 trilioni di dollari USA di obbligazioni societarie esterne EM. Tuttavia, i mercati societari locali rimangono di nicchia a causa di due fattori principali: il rischio valutario e la scarsa liquidità. Esistono due tipi di obbligazioni societarie in valuta locale EM:
Obbligazioni locali locali e obbligazioni locali globali.
Le obbligazioni societarie locali locali sono obbligazioni emesse localmente, soggette a tassazione locale e alle normative locali, che richiedono conti di deposito nazionali. Esse rappresentano oltre il 90% dell’universo delle obbligazioni societarie locali EM, e la metà di questo universo è composta da debito cinese onshore. Le obbligazioni locali attraggono la maggior parte degli investitori nazionali perché non devono assumersi il rischio di cambio. Le obbligazioni in generale tendono anche ad offrire un rendimento superiore a quello delle obbligazioni sovrane locali e attori di mercato locali esperti (broker, trader, investitori, analisti) aiutano ad orientarsi sul mercato. Al contrario, gli investitori stranieri possono avere difficoltà a investire a causa della tassazione, del rischio di cambio, della scarsa liquidità e della limitata disponibilità di informazioni al di fuori del paese.
Grafico 10.
Le obbligazioni societarie locali globali sono obbligazioni locali liquidate attraverso Euroclear, ovvero dove gli investitori non richiedono conti locali e in generale sono obbligazioni esenti da imposte. Rappresentano meno del 10% delle obbligazioni societarie locali. Questo mercato include anche le obbligazioni a doppia valuta, ovvero obbligazioni locali liquidate in una valuta diversa (spesso in dollari USA). Sono spesso coniate con nomi particolari, ad esempio, obbligazioni masala in India o obbligazioni komodo in Indonesia. Gli investitori stranieri di credito di solito favoriscono questo mercato perché elimina l’onere fiscale. La liquidità rimane comunque un grosso ostacolo. Circa la metà delle obbligazioni che possono essere liquidate in euro non sono idonee agli indici, soprattutto a causa della mancanza di liquidità (nessun filtro attivo dei prezzi o delle dimensioni delle obbligazioni). Prendendo l’indice LCCD di BofAML come proxy per i nomi più liquidi, l’universo obbligazionario locale globale “investibile” si è attestato a soli 245 miliardi di dollari. Si tratta solo di una parte dei 7.800 miliardi di dollari delle obbligazioni corporate locali EM e probabilmente la maggior parte delle obbligazioni dell’indice vedrà una certa liquidità solo in piccole dimensioni (vale a dire al di sotto di 1 milione di dollari equivalenti), in netto contrasto con una liquidità molto migliore in altre parti del debito EM. Anche gli investitori stranieri rimangono esposti al rischio di cambio. L’analisi dell’indice mostra che la volatilità dell’asset class è più vicina alle obbligazioni sovrane in valuta locale EM e più lontana alle obbligazioni societarie esterne EM. Ciò significa che il rischio di cambio – a differenza del rischio di credito aziendale – è uno dei principali fattori di volatilità, mentre la liquidità è inferiore a quella dell’universo obbligazionario sovrano EM in valuta locale, molto liquido. Inoltre, la mancanza di diversificazione in termini regionali e la mancanza di diversificazione in termini valutari potrebbero non essere adatte a tutti i portafogli. Cina, Messico, Sudafrica, Russia, Malaysia, India, Colombia e Singapore rappresentavano l’85% dell’indice LCCD di BofAML al 15 gennaio 2019. Infine, la mancanza di ricerca sull’indice e di copertura da parte delle agenzie di rating (il 28% dell’indice non è valutato) può costituire un ulteriore ostacolo per gli investitori stranieri che tendono a preferire un mercato obbligazionario aziendale esterno più diversificato e liquido.
Quando i presidenti di Stati Uniti, Francia e Regno Unito annullano il loro viaggio al World Economic Forum di Davos, la mecca della globalizzazione negli ultimi due decenni, per occuparsi di problematiche interne al loro Paese, è normale che gli investitori si preoccupino del rallentamento del commercio globale, di politiche monetarie miopi e, quindi, di crescita globale inferiore. I dati di questa settimana sembrano rivendicare tali paure: le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina si sono intensificate sull’ipotesi dell’annullamento di un incontro. La Cina ha registrato una crescita del 6,6% nel 2018, il ritmo più lento da quasi 30 anni. I dati immobiliari statunitensi sono poco rosei e il sondaggio di Zew per le prospettive di crescita economica in Germania hanno toccato una minima di quattro anni. Il Fondo monetario internazionale (FMI) che da mesi parla di un rallentamento commerciale a scapito delle economie, ha nuovamente tagliato le sue previsioni di crescita globale per il 2019, dal 3,7% al 3,5%. La riduzione è stata principalmente dovuta a una crescita più rallentata in Germania e in Italia, e a una contrazione più profonda del previsto in Turchia. L’FMI ha mantenuto per quest’anno le previsioni di crescita negli Stati Uniti al 2,5%.
In questo contesto, e per via della correzione di mercato alla fine dello scorso anno, le banche centrali stanno inviando messaggi accomodanti, in modo particolare la Federal Reserve statunitense (Fed). Negli ultimi cinque giorni di contrattazioni, l’anticipazione di tassi inferiori o almeno stabili ha contribuito ad alimentare gli asset di rischio, specialmente le compagnie investment grade statunitensi, che nel 2018 hanno particolarmente sofferto a causa dell’offerta massiccia e del deterioramento della qualità del credito. Gli spread high yield (HY) hanno continuato a contrarsi questa settimana, conducendo il loro guadagno da inizio anno a 3,7%, compensando ampiamente la loro perdita del 2% per il 2018. I Paesi emergenti sono arretrati questa settimana, dopo un buon inizio anno e con il guadagno del dollaro USA rispetto a buona parte delle valute dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo, riflettendo le migliori prospettive di crescita statunitensi. Le aspettative di inflazione statunitense, in una spirale discendente da ottobre, si sono riprese a gennaio dopo che la Fed ha segnalato una potenziale battuta d’arresto nel ciclo di rialzo dei tassi, una mossa che potrebbe generare inflazione. A sostegno delle aspettative di inflazione, il petrolio è salito a 53 dollari al barile, dai 45 dollari di inizio anno.
Su:
Credito – occasioni dopo la correzione? Il forte aumento degli spread creditizi globali dello scorso anno ha portato i rendimenti a un livello che secondo alcuni investitori è abbastanza alto da compensare il rischio assunto. Come si vede nel grafico sottostante, sviluppato dal team degli investment specialist del fixed income di M&G, alla fine del 2017 le principali classi di credito globali erano scambiate al di sotto del livello medio di un intervallo di 20 anni (cerchio rosso). Un anno dopo (e in seguito a una forte correzione), solo il credito statunitense è a quel livello del 50%, mentre il debito societario in sterline e in euro si sta avvicinando al livello più basso dal 1999. Il più economico di tutti è il debito in sterline di categoria B (considerato HY), che vende solo il 25% al di sotto del suo prezzo più basso nell’arco di 20 anni, penalizzato dalle preoccupazioni della Brexit e dalle cupe previsioni di crescita europee. Questa prospettiva pesa anche sul credito europeo – come si vede dalla linea verde che si espande ulteriormente nel grafico di destra. Valutazioni più basse implicano che gli investitori abbiano una protezione maggiore prima di perdere denaro dalla componente di credito dell’obbligazione: ad esempio, per il debito in euro con rating A, che ha uno spread di 123 punti base (bps) sul tasso privo di rischio e una durata dello spread (sensibilità alle variazioni dello spread) di 5,12 anni, lo spread dovrebbe allargarsi di altri 62 bps prima che gli investitori perdano denaro (di nuovo, sulla componente di credito dell’obbligazione). Tale spostamento porterebbe lo spread a 185 bps, un livello che è stato superato solo due volte negli ultimi 20 anni: durante la crisi finanziaria 2007-2008 e durante la crisi del debito sovrano europeo nel 2010-2012.
La sterlina e l’economia del Regno Unito sfidando la gravità: Al culmine dell’incertezza della Brexit, quando l’uscita prevista della Gran Bretagna dall’UE è a soli due mesi di distanza e ancora non c’è un accordo, il paese ha registrato alcuni dei suoi dati più forti degli ultimi tempi: la disoccupazione è scesa al 4%, più del previsto e ai livelli più bassi da quando gli Abba e i Bee Gees hanno conquistarono la vetta delle classifiche britanniche (1975). Anche i salari sono aumentati, con la contrazione del mercato del lavoro, e la sterlina si è rivalutata contro un dollaro USA in crescita – è cresciuta del 2,27% quest’anno, diventando la valuta del G10 più performante rispetto al biglietto verde. L’ottimismo arriva quando gli investitori prezzano minori possibilità di una Brexit caotica o di altre alternative, come un’elezione generale o un secondo referendum. I linker britannici, tuttavia, non si sono uniti all’ottimismo, in quanto il calo del 3,6% negli ultimi cinque giorni di negoziazione li rende l’asset class a reddito fisso meno performante tra le 100 tracciate da Bond Vigilantes Weekly: la Camera dei Lord ha proposto di modificare l’indice di riferimento delle obbligazioni legate all’inflazione, usando un indice che tende ad essere un po’ più basso, lasciando gli investitori meno protetti. Per saperne di più, leggi il blog del gestore Ben Lord“La guerra degli indici: Quale misura di inflazione usare?
Giù:
Previsioni di aumento dei tassi negli Stati Uniti – Fed in attesa? Le possibilità implicite di mercato che la Fed aumenti i tassi a marzo sono scese a livelli modesti, da oltre il 60% circa di due mesi fa. I funzionari della Fed hanno pubblicamente riconosciuto che stanno considerando la possibilità di arrestare il ciclo di rialzo dei tassi d’interesse, a seguito di dati economici tiepidi, di una bassa inflazione prolungata e della forte correzione sul mercato nel novembre e dicembre dello scorso anno, cosa che può colpire la spesa dei consumatori, dato l’elevato grado di proprietà delle attività finanziarie da parte dei consumatori statunitensi. Anche lo shutdown del governo statunitense, che dura da un mese, dovrebbe ostacolare l’attività. Di conseguenza, le obbligazioni societarie stanno godendo di un buon gennaio, con la speranza che il loro rendimento positivo sul capitale investito continuerà ad essere superiore ai costi di finanziamento, mantenendo redditizi i loro piani di investimento. Secondo le previsioni economiche, gli investimenti di capitale statunitensi dovrebbero crescere quest’anno del 3,7%, più di qualsiasi altra componente del prodotto interno lordo (PIL). Come si vede nel grafico, gli spread HY USA si sono contratti a gennaio, in linea con il calo delle aspettative di aumento dei tassi.
Le aspettative di inflazione in Europa – di nuovo al punto di partenza? Proproi mentre la Banca Centrale Europea (BCE) si appresta a ritirare le sue misure di sostegno QE multimiliardarie, le aspettative di inflazione sono crollate, rispecchiando le pessime prospettive della regione: Il Fondo monetario internazionale (FMI) ha dichiarato all’inizio di questa settimana che una crescita europea più contenuta avrebbe trascinato al ribasso l’economia globale, soprattutto a causa del rallentamento in Germania. Il motore economico dell’Europa è stato colpito dalla debolezza dei consumi privati e da una produzione industriale poco brillante, a seguito dell’introduzione di nuovi standard per le emissioni delle automobili. Anche l’Italia si trova ad affrontare una domanda interna debole e costi di finanziamento più elevati, mentre la crescita francese è messa in discussione dalle proteste in corso dei “gilet gialli”. La misura delle aspettative di inflazione preferita dalla BCE, ovvero il tasso d’inflazione swap EUR a 5 anni atteso dopo 5 anni, è sceso all’1,53%, il livello più basso dal giugno 2017, e più o meno allo stesso livello del marzo 2015, quando la BCE presentò il suo programma di stimolo.
Dopo lunga analisi, la Camera dei Lord britannica ha finalmente affermato che l’indice di inflazione attualmente utilizzato per valutare i titoli legati all’inflazione, le tariffe dei treni o i prestiti agli studenti, andrebbe sostituito. Piuttosto, l’indice dei prezzi al consumo (IPC) dovrebbe diventare il nuovo punto di riferimento, in quanto include più voci e gode complessivamente di una maggiore credibilità. Fino a qui tutto bene – a meno che tu non sia un investitore.
L’ente statistico ha ammesso i limiti dell’indice dei prezzi al dettaglio (RPI) attualmente utilizzato, già de-riconosciuto come statistica nazionale ufficiale, ma anche che comunque preferirebbe migliorarlo. In ogni caso, non si tratta di una lotta tra Lord e ONS (Ufficio nazionale di statistica), in quanto ogni cambiamento è in ultima analisi nelle mani del Cancelliere, che ha a che fare con questo problema da diversi anni.
Abbiamo discusso più volte la differenza tra RPI e IPC (nota come “cuneo”) ma, giusto come promemoria, l’RPI è generalmente più elevato non solo perché è calcolato con una formula diversa, ma soprattutto perché contiene una componente abitativa (prezzi e interessi ipotecari), che l’IPC non contiene. Nel lungo termine, e riflettendo il boom del mercato immobiliare britannico, l’RPI è stato di circa 100 punti base (bps) superiore all’IPC.
E quale problema ne deriva? Per diverso tempo, molti hanno sostenuto che questa differenza portasse all'”index shopping”, per cui le spese gravitano verso l’IPC (inferiore), mentre le entrate e il reddito generalmente guadagnano se collegate all’indice RPI più alto. I gilt indicizzati fanno riferimento all’RPI, il numero più alto, quindi questi titoli sono immediatamente scesi quando la Camera alta ha espresso la sua raccomandazione questa settimana: i rendimenti dei linker (o obbligazioni indicizzate all’inflazione) hanno raggiunto il loro livello più alto da novembre, come si vede nel grafico sottostante.
La Camera dei Lord ha detto che l’RPI dovrebbe correggere il suo calcolo del 2011 per l’abbigliamento, una mossa volta a ridurre il riconoscimento dei prezzi di alcuni articoli, ma che ha avuto esito opposto. Sicuramente una raccomandazione facile ed ovvia: se questo calcolo dovesse cambiare, l’RPI potrebbe diminuire di 25 bps o, secondo alcune stime, anche di 50 bps! A parità di tutte le altre condizioni, la modifica vedrebbe i tassi di breakeven (utilizzati come indicatore delle aspettative di inflazione) calare di 25-50 bps, e a risentirne sarebbero i rendimenti reali (i rendimenti reali aumentano al diminuire delle aspettative di inflazione). In termini monetari, un calo di 25-50 bps dell’RPI determinerebbe un calo del 12%, a quasi un quarto, del prezzo del bond indicizzato 2068!
Cosa ancora più importante, la Camera ha anche suggerito che le nuove emissioni di linker dovrebbero fare riferimento all’IPC piuttosto che all’RPI. Cinque anni fa, una consultazione aveva preso in considerazione la rimozione dell’RPI, ma le implicazioni erano così gravi che la commissione responsabile aveva infine deciso di non fare nulla. Dal sollievo, i breakeven balzarono in avanti. Se questo cambiamento avvenisse ora e i linker finissero per fare riferimento all’IPC, e ipotizzando un cuneo di 100 bps, il prezzo del linker 2068 si dimezzerebbe quasi.
Fortunatamente per gli investitori, gli importanti cambiamenti normativi nei mercati finanziari tendono ad essere un po’ più discreti: è più probabile che il Tesoro annunci l’intenzione di emettere obbligazioni indicizzate all’IPC, che potrebbero coesistere con quelle legate all’RPI, cessando ogni nuova emissione con riferimento all’RPI. Ciò richiederebbe ancora diversi anni, in quanto sarebbe necessario preparare il mercato e comprenderne le implicazioni. A seguito della revisione dei Lords e di anni di riflessione, sono certo che il Cancelliere e il Tesoro siano ben consapevoli che un semplice passaggio da RPI a IPC potrebbe avere un effetto simile agli eventi creditizi così temuti dagli investitori – di solito un cambiamento negativo che riduce la capacità degli emittenti di rimborsare i debiti. I detentori di obbligazioni perderebbero certamente – di certo non un risvolto positivo per un Paese con un grande deficit delle partite correnti, cosa che lo rende dipendente dal capitale estero.
Nel complesso, posso solo prevedere tempi duri in futuro, dato che il cuneo e l’emissione di titoli basati sull’IPC sono argomento di attualità. Tuttavia, e a breve termine, i titoli indicizzati all’RPI potrebbero scambiare a livelli più alti se l’emissione cessasse. Date le elevate valutazioni attuali (i breakeven sono superiori al 3% lungo tutta la curva), mi aspetto che da qui in poi ci si concentri maggiormente sul ribasso: se è vero che le probabilità di una Brexit senza accordo sono diminuite, ci si potrebbe aspettare una sterlina più forte a limitare la crescita dell’inflazione. Ancora al di sotto del 12% rispetto al suo livello pre-referendum del 2016, la sterlina ha molto terreno da recuperare – ma questa è un’altra storia. Non smettete di seguirci, continuerò ad aggiornarvi con più commenti strada facendo. Sicuramente le occasioni non mancheranno.
Anche se i mercati mondiali sono più influenzati dalle parole della Fed e dalla Cina che non dalla politica britannica, quando a Londra lo speaker della Camera ha annunciato (con la formula tradizionale ultracentenaria) la vittoria dei “no” al piano di Brexit del governo, ha contribuito inavvertitamente ad abbassare i livelli di zucchero in Europa. L’interpretazione degli investitori secondo cui un’uscita dall’UE drastica o disordinata adesso è meno probabile ha rafforzato la sterlina e spinto verso l’alto i rendimenti dei gilt, un fenomeno quest’ultimo dovuto alla domanda ridotta di protezione contro il caos. Il rally di sollievo in Regno Unito è arrivato a coronamento di un inizio anno robusto, con risultati positivi per oltre 90 delle 100 asset class obbligazionarie seguite da Panoramic Weekly. Finora nel 2019 solo i Treasury USA a lunga scadenza e gli asset tradizionalmente ultrasicuri come i titoli sovrani di Svizzera e Singapore hanno fatto subire qualche perdita agli investitori, essendo meno propensi a beneficiare di un clima di euforia
Negli Stati Uniti, il blocco dell’attività governativa in corso, i dati economici tiepidi e gli utili contrastati nel settore bancario hanno dato ragione ai toni da colomba adottati di recente dalla Federal Reserve (Fed), trascinando ancor più verso il basso le proiezioni sui tassi: la probabilità implicita nel mercato di un ritocco al rialzo a marzo è sprofondata allo 0,5% dal 41% di inizio dicembre. A sostenere gli asset di rischio hanno contribuito anche il rimbalzo del petrolio e i piani di stimolo economico promessi dalla Cina: le obbligazioni russe, nigeriane e messicane guadagnano più del 4,2% nel 2019, mentre gli spread dell’high yield USA hanno continuato a contrarsi e, dopo il picco di quasi l’1,5% raggiunto nel clima cupo del mese scorso, sono tornati ai 446 punti base (pb) di metà dicembre. Non così positive, invece, le notizie dall’Europa, dove l’andamento deludente in Germania ha fatto abbassare le aspettative di inflazione proprio mentre in Cina il surplus del saldo corrente toccava il minimo record, a conferma del fatto che la frenata asiatica sta pesando sul bastione industriale d’Europa (ne riparliamo più avanti).
Su
La sterlina evita il caos. Allontanato lo spettro degli scaffali vuoti al supermercato e delle strade al collasso, la sterlina ha tirato un sospiro di sollievo e gli investitori hanno cominciato a escludere l’ipotesi di un’uscita dall’UE precipitosa e disorganizzata. Mentre le opzioni possibili restano ancora molte (elezioni generali, un secondo referendum e persino nessuna Brexit), la sterlina è risalita a quota 1,286 per dollaro USA, che è il livello più alto da novembre anche se ancora inferiore del 13% al cambio vigente alla vigilia del referendum del 2016, quando la prospettiva di rialzo dell’inflazione e calo della crescita nel Paese avevano fatto crollare la valuta del 20%. Come si vede nel primo grafico, il valore della sterlina è stato fortemente influenzato dalla politica britannica negli ultimi due anni, con l’unica eccezione del periodo immediatamente prima di Natale, in coincidenza con il rinvio del voto cruciale del Parlamento, poi tenutosi il 15 gennaio. Negli oltre due anni di dibattito governativo e parlamentare sull’esecuzione del mandato di Brexit, la crescita e gli investimenti sono diminuiti, mentre l’inflazione è aumentata (secondo grafico). Ma i sudditi di Sua maestà hanno almeno un motivo per sorridere: la probabilità di un rialzo dei tassi a marzo scontata dal mercato è scesa al 3%, dal 43% di ottobre dell’anno scorso, principalmente per effetto dei prezzi petroliferi in declino; intanto a dicembre l’inflazione ha segnato un aumento del 2,1% rispetto a un anno prima, il livello più basso da due anni a questa parte.
Argentina: rinascita a sorpresa. I precedenti di default, il programma di aiuti dell’FMI in corso e la battaglia decennale con i fondi che tentano di recuperare i loro capitali non bastano a scoraggiare gli investitori che vogliono credere ancora nell’Argentina: le obbligazioni del Paese latino-americano hanno guadagnato il 7,5% finora quest’anno, facendo segnare la performance migliore fra le 100 asset class a reddito fisso monitorate. La banca centrale è stata la prima a muoversi quest’anno, fra quelle dei principali Paesi del mondo, cominciando lentamente a tagliare il tasso di rifermento Leliq, sceso ora al 57,4% dal picco del 73% raggiunto a ottobre, all’apice della crisi. Stretto fra la recessione e le regole rigorose del programma dell’FMI, il presidente Macri sta cercando di riportare il Paese alla normalità, soprattutto in vista delle elezioni generali che si terranno il prossimo 27 ottobre. Per un approfondimento sulle elezioni di quest’anno nella regione emergente e altri fattori che influenzano l’asset class, si rimanda al recente post di Claudia Calich, “Paesi emergenti: cinque temi chiave da tenere d’occhio nel 2019”.
Giù
Qual è la probabilità di una recessione negli USA? La Fed sta diventando più cauta, le aspettative di inflazione e di rialzo dei tassi stanno crollando e l’indice di probabilità di recessione della Fed di New York è schizzato al 21%, il livello più alto dal 2008, eppure gli spread del credito raccontano una storia completamente diversa: secondo il capo economista internazionale della Deutsche Bank, Torsten Slok, il premio chiesto dagli investitori per detenere titoli di società investment grade statunitensi deve raggiungere i 300 pb per innescare una recessione (come si vede nel grafico di regressione di Slok in basso). Questa soglia appare lontana dal livello attuale di 144 pb, che non si discosta molto dalla media trentennale di 134 pb. Secondo Slok, sebbene i dati sulla produzione manifatturiera puntino a uno scenario decisamente cupo, altri fattori potrebbero offrire sostegno all’economia statunitense, o quanto meno proteggerla dalla recessione: prima di tutto, la recente stabilizzazione dei prezzi petroliferi e azionari, e poi anche la possibilità che la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina sia avviata verso una soluzione. In base alle proiezioni, la spesa per investimenti continuerà a supportare la crescita nei prossimi due anni, mentre la redditività del capitale investito resta superiore ai costi di finanziamento delle imprese. A giudicare dai prezzi di mercato, la Fed farà una pausa quest’anno, abbandonando i piani attuali di effettuare altri due rialzi dei tassi.
Saldo commerciale cinese ed economia tedesca: nessuna coincidenza. La crescita economica della Germania ha rallentato all’1,5% l’anno scorso, il ritmo più lento da cinque anni, soprattutto a causa della domanda mondiale più fiacca e della crisi del settore automobilistico, colpito dalle nuove norme sulle emissioni. Nel contempo, l’avanzo commerciale della Cina è crollato ad appena lo 0,4% del PIL, il livello più basso degli ultimi vent’anni che riflette gli sforzi del Paese per spostare il fulcro dell’economia dalle esportazioni a basso costo verso la domanda interna. In Germania, i produttori di auto e non solo subiscono gli effetti di questo cambiamento, solo accentuati dall’intensificazione degli attriti commerciali nel 2018, ma intanto le difficoltà tedesche hanno contribuito a pesare sull’economia europea in generale, con la fiducia che a dicembre ha toccato il punto più basso da circa due anni.
Il 2018 è stato un anno torrido per il debito dei Paesi emergenti (EM), le cui valutazioni relativamente elevate all’inizio del periodo sono state compresse dai rischi macro globali (di natura geopolitica in generale, ma anche legati alle guerre commerciali), dalla crescita più fiacca nella regione e da situazioni specifiche di singoli Paesi (Argentina e Turchia). Questi nuovi prezzi sono uno specchio più fedele dei fondamentali? Dipenderà dall’evoluzione di cinque aspetti cruciali.
- Cina-USA: sorpresa positiva? La controversia commerciale tuttora irrisolta ha inciso in misura rilevante sui prezzi degli asset mondiali, creando pressioni sugli scambi e sugli utili societari in tutto il mondo (inclusi quelli di Apple). Se le trattative in corso non dovessero portare a niente, possiamo aspettarci una crescita mondiale più debole che avrebbe ripercussioni sui Paesi emergenti, come abbiamo evidenziato l’estate scorsa nel post intitolato “Quanto sono vulnerabili i mercati emergenti di fronte alle guerre commerciali?” Per la Cina, lo scontro arriva in un periodo difficile per l’economia, in cui il rapporto costo-beneficio di misure di stimolo aggiuntive è inferiore rispetto a dieci anni fa a causa dell’indebitamento più alto nel sistema – l’inflazione va bene per ridurre il debito, ma ha un costo molto alto in termini di competitività. Nonostante il flusso di notizie negative, gli investitori non dovrebbero escludere che si manifesti qualche spinta favorevole: le relazioni fra USA e Cina potrebbero stabilizzarsi quest’anno, generando ricadute positive sui prezzi degli asset, incluso il debito EM.
- Federal Reserve (Fed): meno colomba, ma più attiva nell’emissione? I mercati avevano fatto presto a scontare strette aggiuntive della Fed quest’anno, ma di fronte ai prezzi del petrolio in caduta, ai toni cauti dei banchieri centrali e ai dati tiepidi, adesso prevedono la fine del ciclo di contrazione. Tuttavia, in assenza di una frenata significativa negli Stati Uniti, i Treasury scontano premi al rischio scarsi soprattutto considerando che l’offerta resta decisamente ampia, situazione in genere negativa per i prezzi delle obbligazioni. Il debito governativo statunitense dovrebbe restare elevato, viste le attuali proiezioni di deficit di bilancio, ma anche perché alcuni acquirenti naturali, incluse varie banche centrali, hanno ridotto di recente le posizioni detenute in Treasury; la Cina per esempio non ha più un avanzo corrente significativo, pertanto la sua capacità di parcheggiare altrove quei dollari extra è diminuita.
- Elezioni e rischi idiosincratici: volatilità e opportunità. Nel 2019 le elezioni generali in calendario in diversi Paesi della regione emergente potrebbero creare una certa volatilità, ma anche delle opportunità. Riguardo alle possibili reazioni del mercato, il voto in Argentina a ottobre è quello dall’esito più dubbio: il presidente in carica Macri, considerato pro-mercati, probabilmente si ricandiderà (la sua vittoria sarebbe un risultato positivo), ma potrebbe trovarsi contro l’ex presidente Christina Kirchner (la cui elezione riceverebbe un’accoglienza negativa), e anche un candidato del Partito Peronista (prevedibile una reazione neutrale, se la linea sarà quella di proseguire lungo il percorso di risanamento guidato dall’FMI, o negativa in caso contrario). Anche le consultazioni in programma in Ucraina (marzo), Indonesia (aprile), India (aprile/maggio) e Sudafrica (maggio) rischiano di creare un ambiente volatile. Altrove le elezioni più importanti sono già alle spalle, quindi l’attenzione si è spostata sulla realizzazione (o il tradimento) delle promesse fatte: ad esempio, stiamo monitorando i progressi della tanto attesa riforma delle pensioni in Brasile, mentre aspettiamo di capire chiaramente quale sarà la politica economica del Messico. Ovviamente le elezioni rivestono un’importanza cruciale, dato che l’azione di governo può creare o ridurre i rischi idiosincratici. Come sempre nei Paesi emergenti è essenziale evitare tali rischi, in genere associati ai mercati più sottoperformanti. L’anno scorso, ad esempio, non c’è stato un tema comune fra i risultati peggiori, che sono derivati da problemi specifici di natura idiosincratica, come le enormi esigenze di finanziamento in Argentina, il crollo dei prezzi petroliferi per Nigeria, Ecuador e Venezuela, o le misure di adeguamento fiscale poco convincenti in Zambia e Costa Rica.
- Commodity: sintomo o causa? Malgrado la percezione diffusa di un legame robusto fra petrolio e mercati emergenti, la sensibilità ai prezzi petroliferi è tutt’altro che uniforme tra i Paesi in via di sviluppo. Se il greggio dovesse apprezzarsi, Turchia, India e altri importatori vedrebbero un deterioramento del saldo commerciale, mentre il Medio Oriente e altri Paesi esportatori della regione EM (come Russia e Nigeria) sarebbero favoriti, motivo per cui la volatilità del petrolio è destinata a influenzare in modo diverso l’andamento degli asset. D’altro canto, una flessione significativa delle commodity metalliche tende ad avere un impatto negativo su gran parte dei Paesi emergenti, non solo perché colpisce gli esportatori, ma anche perché spesso segnala una domanda fiacca da parte degli importatori (prima fra tutti la Cina), che fa presagire un rallentamento della crescita mondiale. Ad esempio, la frenata del mercato immobiliare cinese ha depresso i prezzi dell’acciaio e del minerale di ferro su scala globale.
- Fondamentali societari: di nuovo una nota positiva? I bassi tassi di default e i progressi degli emittenti societari in termini di affidabilità creditizia sono stati le note positive dell’anno scorso nel panorama EM (per un approfondimento, si rimanda al post di Charles de Quinsonas, “High yield dei mercati emergenti: c’è valore dopo la correzione?”). Con gli utili robusti e la spesa per investimenti disciplinata nel corso di tutto l’anno, il debito netto si è ridotto, tanto che alla fine di giugno (ultimi dati disponibili), la leva netta delle società EM era inferiore a 2,75 volte gli utili, in calo dal picco di 3,5 raggiunto nel 2016. Guardando al 2019, siamo convinti che i fondamentali societari cominceranno a stabilizzarsi, mentre i tassi di default nel segmento high yield della regione potrebbero aumentare leggermente al 2-3% (da meno del 2% nel 2018), per via delle condizioni macroeconomiche in Paesi come la Turchia, la Cina e l’Argentina, restando comunque al di sotto della media di lungo periodo.
Per concludere, anche se una riduzione dei rischi macro globali sembra improbabile nel 2019, il rendimento disponibile sul debito EM (circa il 7% sui titoli sovrani in dollari USA), al livello più alto dai tempi della Crisi finanziaria globale del 2007-2008, aumenta le probabilità di una performance migliore rispetto all’anno scorso, tanto più che dal 1994 i titoli in valuta forte non hanno mai fatto segnare risultati negativi per due anni di seguito.
Diversa la situazione del debito locale, dato che il riassestamento delle valute spesso richiede diversi anni, a seconda del ciclo economico, della politica monetaria e delle prospettive relative alla bilancia dei pagamenti. Tuttavia, osservando le valutazioni, l’adeguamento delle partite correnti già realizzato in molti Paesi e l’aumento dei rendimenti reali, la correzione delle valute locali sembra per gran parte alle nostre spalle; dato che però anche il debito in dollari si è deprezzato, manteniamo un’esposizione neutrale fra valuta forte e locale – nel 2019 ci saranno opportunità in entrambi segmenti.
A quanto pare, l’anno nuovo ha visto il ritorno di “Goldilocks”, uno degli scenari economici preferiti dagli investitori, quasi del tutto assente nel corso del 2018: il dato robusto sull’occupazione e i toni accomodanti del presidente della Federal Reserve (Fed), Jerome Powell, sono bastati a ripristinare l’ambiente né troppo caldo né troppo freddo in cui i tassi relativamente bassi si accompagnano a una crescita economica positiva quanto basta, offrendo sostegno agli asset rischiosi. Ad esempio, nel segmento high yield statunitense, gli spread hanno visto un rally di 80 punti base (pb) da inizio anno, dopo che a dicembre si erano ampliati di oltre l’1%, mentre le azioni sono schizzate verso l’alto.
A innescare tanto ottimismo è stato soprattutto Powell, che venerdì ha dichiarato che la Fed sarà paziente nel percorso di rialzo dei tassi, visto che l’inflazione resta sotto controllo. I mercati hanno reagito con forza: le aspettative di un ritocco dei tassi a marzo da parte della Fed sono sprofondate al 5%, dal 41% di un mese fa, e anche quelle relative all’inflazione sono scese insieme al dollaro, a tutto vantaggio dei mercati emergenti e delle rispettive valute, che hanno registrato un rimbalzo anche grazie alle nuove misure di rilassamento della politica monetaria cinese e malgrado i dati fiacchi in arrivo dalla seconda economia mondiale per dimensioni, dove a dicembre l’inflazione alla produzione e al consumo è risultata inferiore alle attese. In Europa, le statistiche deludenti in Germania hanno frenato l’euro, rimasto piatto contro il dollaro in calo.
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Cuscinetti: la correzione sul credito aumenta il margine di errore. Per quanto sia stata dolorosa, la correzione recente sul mercato del credito ha il merito di aver creato un cuscinetto di protezione più consistente: secondo il gestore di M&G Wolfgang Bauer, gli spread dei titoli societari investment grade europei a breve scadenza dovrebbero ampliarsi di 40 punti base (pb) quest’anno per trascinare gli investitori in una situazione di rendimento negativo. Tale cuscinetto, calcolato in termini di spread OAS/Libor dell’indice diviso per la rispettiva duration di spread, solo un anno fa era inferiore a 10 pb, un livello che praticamente scontava la perfezione. Come si vede nel grafico, il margine di protezione è aumentato con il declino dei mercati, soprattutto dopo le elezioni in Italia a maggio che hanno intensificato i timori per il futuro dell’UE, e adesso ha raggiunto il livello più alto da circa due anni, grosso modo quadruplo rispetto a un anno fa. Secondo Wolfgang, però, i corporate europei sono ancora sensibili alla volatilità politica e all’offerta abbondante (che in genere penalizza i prezzi obbligazionari). Anche in Europa i dati sono stati deludenti, sebbene le aspettative puntino tuttora a una crescita economica dell’1,6% quest’anno e dell’1,5% nel 2020 (in calo dall’1,9% del 2018). Non perdete l’analisi sul credito di Wolfgang nella sezione video Questa settimana su BVTV: Self-check: how did we do in our 2018 predictions?
Dollaro USA e prezzi petroliferi lasciano perplessa anche la Fed. La forte correlazione fra i prezzi del petrolio e il dollaro statunitense nell’ultimo decennio ha stupito molti investitori, a cominciare dalla Fed. In un post pubblicato di recente, intitolato “The perplexing co-movement of the dollar and oil prices”, la banca centrale statunitense si interroga sui motivi sottesi alla debolezza del dollaro contro l’euro in un contesto di prezzi petroliferi in rialzo. Secondo gli autori, un incremento del 10% del petrolio è associato a un deprezzamento dell’1,5% del dollaro rispetto all’euro, cosa che non sempre sembra ragionevole, considerando che spesso i prezzi petroliferi sono legati dalla domanda asiatica e dall’offerta mediorientale. Perché mai questa dinamica dovrebbe influenzare il tasso di cambio USD/EUR? Una spiegazione, secondo la Fed, è che il petrolio più caro riduce la produzione attesa statunitense rispetto a quella europea, trascinando verso il basso il biglietto verde. Questo succede perché l’Europa tende ad avere accise sui carburanti nettamente superiori, pertanto i consumatori europei sono meno sensibili ai prezzi del petrolio. Tuttavia, la Fed ammette che è difficile immaginare che i livelli di congestione sulle strade europee abbiano un effetto determinante sul tasso di cambio dollaro/euro. La banca centrale non offre una risposta definitiva su questo tema, mentre intanto i prezzi petroliferi salgono e il dollaro perde quota.
Giù
Aspettative di inflazione negli USA: effetto Powell. Il presidente della Fed ha gettato una secchiata di acqua fredda sulle aspettative di inflazione negli Stati Uniti, con le recenti rassicurazioni sul fatto che l’azione della banca centrale resta dipendente dai dati, attenta alle reazioni del mercato e consapevole dell’andamento tutt’altro che effervescente dei prezzi. Anche a causa del calo subito negli ultimi tempi dal petrolio, il parametro delle aspettative di inflazione preferito dalla Fed, ossia il tasso di breakeven atteso a cinque anni (linea blu), è crollato all’1,75%, il livello più basso da giugno 2017 che è anche ampiamente inferiore alle previsioni di inflazione al consumo nel Paese (linea tratteggiata arancione), una media delle stime di vari analisti che attualmente indica un’inflazione al 2,4% nel 2018 ma in rallentamento al 2,2% sia nel 2019 che nel 2020. Come si vede nel grafico, il divario sempre più marcato fra le due grandezze spezza una correlazione rimasta forte negli anni: secondo alcuni osservatori, dipende dalle previsioni irrealistiche degli analisti, mentre per altri i tassi di breakeven, corrispondenti alle aspettative di mercato, riflettono un pessimismo eccessivo sull’economia statunitense, che invece dovrebbe comunque crescere del 2,6% quest’anno e dell’1,9% il prossimo. Le inefficienze di prezzo sono le occasioni che gli investitori attivi aspettano sempre con ansia, purché si rivelino effettivamente tali.
Germania in recessione?. I rendimenti dei bund decennali sono di nuovo allo 0,2%, dopo aver raggiunto a inizio anno il minimo dell’ultimo biennio a quota 0,15%. Questa volta, però, il calo potrebbe non essere riconducibile alla domanda di sicurezza, ma a motivi più preoccupanti: a novembre la produzione industriale è scesa per il terzo mese consecutivo portando il dato annualizzato a -4,7% (il livello più basso dal 2009) e facendo sorgere il dubbio che l’economia più forte d’Europa stia scivolando in recessione. L’industria tedesca è stata colpita, fra l’altro, dalla riduzione degli scambi mondiali e dalla frenata della Cina, dove le vendite di automobili sono diminuite del 6% nel 2018.
Il nuovo anno è iniziato ricordandoci bruscamente tutto ciò che probabilmente gli investitori volevano dimenticare durante le festività: i dati economici stanno peggiorando, mentre il prezzo del petrolio continua a scendere, trascinando verso il basso le azioni e le classi di attivi a reddito fisso più simili alle azioni. I titoli-rifugio tradizionali continuano a balzare in avanti, come era successo nel 2018.
L’anno passato si è chiuso in modo molto peggiore di come era iniziato: dopo un 2017 di forte crescita, durante il quale quasi tutti i settori del reddito fisso avevano messo a segno risultati positivi, le iniziali speranze del 2018 sono rapidamente sfumate con l’acuirsi delle guerre commerciali tra Cina e Stati Uniti e per via delle elezioni in Italia nel mese di maggio, che hanno sollevato domande circa il futuro dell’Unione Europea (UE). Anche i timori di una hard Brexit hanno pesato sulle prospettive economiche del continente, conducendo per la prima volta da anni gli spread di credito al di sopra di quelli degli Stati Uniti. La Cina ha continuato a perdere terreno, mentre negli Stati Uniti l’ottimismo ha iniziato a svanire con l’aumento dei tassi d’interesse, i dati economici sono stati deludenti e il petrolio è sceso a meno di 50 dollari al barile a fronte di una domanda debole. Le proiezioni degli utili societari statunitensi sono state ridotte in quanto gli effetti dei recenti tagli fiscali hanno preso a calare. Il rendimento del Treasury a 10 anni, benchmark mondiale che l’anno scorso ha raggiunto un massimo di 7 anni del 3,2%, ha cambiato marcia dopo che i Democratici hanno ottenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti alle elezioni di metà novembre. Gli investitori hanno creduto che la loro vittoria avrebbe ridotto le possibilità di ulteriori incentivi fiscali da parte del presidente Trump. Il rendimento del Treasury a 10 anni è in continua scivolata da allora e ha chiuso il 2018 a 2,66%.
Nonostante il pessimismo, quasi un terzo delle 100 asset class a reddito fisso tracciate da Panoramic Weekly ha ottenuto rendimenti positivi lo scorso anno, determinati dai tradizionali titoli rifugio come i bund e i Treasury. Con il rallentamento della crescita globale e il debito globale che ha raggiunto un esorbitante 225% del PIL mondiale, gli investitori scommettono che alcune banche centrali potrebbero dover controllare le loro proiezioni di aumento dei tassi, offrendo un maggiore sostegno ai prezzi delle obbligazioni. Il presidente della Federal Reserve statunitense Jerome Powell lo aveva già fatto in dicembre – la Fed ora vede quest’anno due aumenti dei tassi invece di tre. Il team di M&G Panoramic Weekly vi augura un Felice Anno Nuovo.
Su:
Titoli rifugio: era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi I Treasury statunitensi, i titoli di Stato europei e il debito sovrano del Giappone hanno fatto nel 2018 quello che di solito fanno: offrire rendimenti positivi, in qualsiasi caso. Mentre i mercati del debito delle imprese e i paesi in via di sviluppo hanno sofferto a causa di tassi di interesse più elevati, un dollaro più forte, le guerre commerciali in corso e una minore crescita economica globale, i tradizionali titoli rifugio sono rimasti solidi. Il Treasury ha registrato rendimenti negativi solo in 2 degli ultimi 18 anni (2009 e 2013), mentre i titoli di stato europei e giapponesi hanno perso solo 1 anno di rendimenti positivi (rispettivamente nel 2006 e 2003), nello stesso periodo. I titoli sovrani sono stati favoriti da una prolungata bassa inflazione globale, un contesto che potrebbe continuare dato il recente crollo dei prezzi del petrolio. Una crescita più debole e l’aumento del debito globale potrebbero anche frenare le banche centrali dall’attuale politiche monetarie più restrittive: su 19 grandi aree economiche, 5 prevedono tassi più bassi tra tre anni (Stati Uniti, Messico, Repubblica Ceca, Giappone e Corea), rispetto a nessuno di appena due mesi fa, secondo i dati di Bloomberg. Per quanto riguarda le valute, anche qui hanno sovraperformato i titoli rifugio, soprattutto il dollaro USA e lo yen. Come avrebbe detto Dickens, per i titoli rifugio, era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi; era l’età della saggezza, era l’età della follia…..
Titoli di Stato cinesi e politica accomodante: una voce fuori dal coro: Nel 2018 il debito sovrano cinese denominato in USD ha restituito agli investitori il 3,8%, il terzo miglior risultato tra le 100 classi di attività a reddito fisso tracciate da Panoramic Weekly. L’aumento avviene nonostante il rallentamento della crescita economica, ora scesa ad un ritmo annualizzato del 6,5%, rispetto al 6,9% dello scorso anno. Il PMI manifatturiero del paese è sceso a 49,4 a dicembre, il più debole dal 2016 e al di sotto del livello 50 che segna una contrazione. Tuttavia, le politiche di stimolo del governo cinese, compresi i tagli alle riserve obbligatorie delle banche, continuano a sostenere l’economia e il mercato obbligazionario. Ancora prevalentemente nelle mani degli investitori locali, il debito cinese è sempre più disponibile per i detentori stranieri attraverso il programma Bond Connect, e potrebbe essere più richiesto dopo essere stato incluso in alcuni indici di riferimento di Bloomberg Barclays a partire da aprile di quest’anno. Nell’attuale contesto globale di crescita dei tassi, gli investitori accolgono favorevolmente un paese con una politica di allentamento generale.
Giù:
Ciclo economico, verso il basso? Con l’ultima recessione ormai risalente a un decennio fa e la teoria economica che suggerisce che i cicli tendono a durare circa 10 anni, gli investitori sono comprensibilmente preoccupati – da qui la loro preferenza per i titoli rifugio rispetto alle attività di rischio. Ma più che il tempo, il nervosismo arriva in mezzo ad altri segnali: durante la fase di espansione tardiva di un ciclo economico, la crescita economica tende ad essere superiore alla crescita tendenziale a lungo termine, ma il ritmo inizia a rallentare. Negli Stati Uniti, ad esempio, la crescita dovrebbe scendere al 2,6% quest’anno e all’1,9% nel 2020, contro il 2,9% previsto nel 2018. Questa fase di “espansione tardiva” è caratterizzata anche da politiche restrittive (che vediamo in tutto il mondo con il passaggio delle banche centrali da Quantitative Easing a Quantitative Tightening), e dall’aumento dell’inflazione (negli Stati Uniti, l’inflazione dovrebbe salire al 2,4% nel 2018, dal 2,1% del 2017). I tassi di interesse sono solitamente più elevati (il rendimento del Treasury a 2 anni, il tasso di sconto mondiale de facto, saltato dall’1,8% al 2,49% nel 2018), portando la volatilità sulle quotazioni azionarie (l’indice S&P 500 ha perso il 6,2% lo scorso anno). Se questa narrazione di “espansione tardiva” è stata applicata bene nel 2018, il nuovo anno potrebbe portarci alla seguente fase di “rallentamento”, dove di solito vediamo: una crescita più lenta (già prevista), un picco di fiducia dei consumatori (questo è un indicatore di ritardo, poiché i consumatori hanno tipicamente bisogno di vedere dati deboli prima di bloccare gli acquisti), un raffreddamento delle politiche restrittive (il presidente della Fed Powell potrebbe averlo già segnalato nel suo discorso accomodante di dicembre), così come una maggiore inflazione (prevista anche negli Stati Uniti). In questo contesto, i rendimenti obbligazionari a lungo termine di solito diminuiscono in quanto gli investitori non tengono conto del rallentamento, mentre le azioni risentono dell’anticipazione di una futura recessione, che sarebbe la prossima tappa. Come al solito, le opinioni variano: mentre la Fed vede due aumenti dei tassi l’anno prossimo, e un’ulteriore inasprimento nel 2020, i mercati non registrano aumenti per tutto l’anno in corso, e tagli in seguito. Nessuno sa cosa ci riserva il futuro, ma negli ultimi anni i mercati sono stati indicatori anticipatori migliori di quanto non lo sia stata la Fed.
EM – anno difficile: Il debito sovrano denominato in USD dei mercati emergenti (EM) è sceso del 4,3% lo scorso anno, la terza perdita annuale negli ultimi 18 anni (gli altri nel 2013 e nel 2008). Il periodo comprende anche dieci anni di rendimenti positivi a due cifre, in quanto la classe di attivi ha beneficiato di una forte crescita globale all’inizio degli anni 2000, mentre è rimasta relativamente immune alla crisi finanziaria del 2007-2008 visti i suoi minori problemi bancari. Ma il 2018 ha portato loro un mix tossico di un dollaro in aumento, prezzi del petrolio in calo (che ha colpito i pesi massimi delle esportazioni di petrolio EM come Brasile, Messico e Russia), guerre commerciali e problemi idiosincratici in Argentina e Turchia. Tutto questo ha colpito più duramente i paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’America Latina, mentre l’Europa orientale e l’Asia sono rimaste più resistenti. Alcuni investitori sostengono che il destino degli EM potrebbe cambiare quest’anno, dato che i “deficit gemelli” negli Stati Uniti potrebbero contenere un aumento del dollaro, mentre la crescita globale dovrebbe rimanere positiva, anche se non elevatissima. Alcuni ritengono inoltre che con rendimenti del 6,8%, i più elevati dal 2009, il rischio potrebbe essere compensato.