Cambio di regime delle banche centrali: un aggiornamento dopo le recenti dichiarazioni della Fed e quelle di Carney

La decisione manifestata recentemente dalla Federal Reserve di cambiare l’approccio alla politica monetaria degli Stati Uniti, ridimensionando l’importanza del target d’inflazione, è solo l’ultimo passo del percorso sempre più accelerato intrapreso dalle autorità monetarie mondiali. In un mondo in cui i tassi di disoccupazione sono decisamente superiori a quello che chiunque considererebbe un livello naturale, oltrepassando in molti Paesi la soglia del 10%, l’esigenza della crescita è molto più pressante del timore di non rispettare il target d’inflazione del 2%.  Così, all’ultima riunione del FOMC, la Fed ha deciso di considerare tollerabile un tasso d’inflazione fino al 2,5%, per lo meno finché la disoccupazione sarà troppo alta (oltre il 6,5%).  Il testo integrale delle dichiarazioni della Fed è disponibile sul sito.

La scelta delle autorità monetarie mondiali di discostarsi dal vecchio target d’inflazione del 2% ci sembra un vero e proprio “cambio di regime delle banche centrali”, di cui abbiamo parlato sul nostro blog già in marzo. Vale la pena di riproporvi il grafico presentato allora.


Il grafico dell’FMI mostra come, nel periodo successivo alla nomina di Paul Volker alla Fed nel 1979 (linea arancione), le autorità monetarie mantennero i tassi d’interesse superiori al tasso d’inflazione (per reazione ai danni causati dalle spinte inflazionistiche degli anni Settanta).  L’effetto fu una costante flessione del tasso di inflazione. E non si parlava d’altro che di tassi “reali” elevati e di inflazione (target d’inflazione, Relazione sull’inflazione della Banca d’Inghilterra, banche centrali indipendenti).  È stato un trentennio (tutto sommato!) eccezionale per gli investimenti in titoli di Stato, i cui rendimenti calavano in risposta alla credibilità della lotta all’inflazione.  Al grafico dell’FMI ho  aggiunto un’altra linea (in blu), che illustra la strategia adottata dalle banche centrali dopo il caso Lehman Brothers e la crisi del credito, seguita dalla crisi del debito sovrano.  Tutta un’altra storia: rendimenti reali fortemente negativi e tassi d’interesse nominali prossimi allo zero in gran parte dei Paesi avanzati, ma un’inflazione superiore al 2%.  Si tratta di una politica voluta dalle banche centrali – i tassi reali negativi servono a rendere appetibile il prendere denaro in prestito per investiree stimulare, dunque, lacrescita (e avvantaggiando i consumatori indebitati), oltre che a incoraggiare una maggiore propensione al rischio (per aumentare i rendimenti, i detentori di titoli di Stato acquistano obbligazioni corporate, gli investitori investment grade passano all’high yield e così via).

I tassi reali negativi hanno anche un altro effetto, di cui parleremo meglio un’altra volta – la riduzione del debito per i governi prossimi al fallimento.  Ci sono pochi modi per ridurre il peso del debito: una crescita reale sostenuta (che non sembra ipotizzabile nel futuro immediato), l’austerità (dagli effetti non dimostrati e probabilmente anche controproducente, per quanto alcuni citino il Canada e la Svezia come esempi positivi in questo senso), il default (che si renderà necessario per alcune economie dell’Eurozona senza una svalutazione monetaria) e l’inflazione.  È forse quest’ultima la via percorribile e, come si capisce osservando la linea rossa del grafico, è il modo in cui le economie occidentali sono riuscite a ridurre i debiti bellici dopo la seconda guerra mondiale.

Non crediamo certo che i dirigenti delle banche centrali e i ministri delle finanze se ne stiano in qualche chalet sulle Alpi svizzere ad accarezzare un bel gatto bianco e a ghignare mentre tramano per generare altissimi livelli d’inflazione, ma questa sta diventando forse la (sola?) risposta pragmatica in un mondo ormai privo di altre risposte sul piano politico (non essendoci ulteriori margini di flessibilità fiscale).  L’ultima decisione della Fed di occuparsi dell’inflazione E, allo stesso tempo, della disoccupazione, ci sembra assai interessante. Quando ero uno studente di economia, l’idea di poter scegliere TRA inflazione e disoccupazione non godeva di molto credito.   Citerei – non vogliatemene – Wikipedia su questo concetto, noto come la Curva di Philips: “nel breve periodo è stato osservato un trade-off stabile tra inflazione e disoccupazione, che però non si manifesta nel lungo periodo”.  Pertanto, l’idea di poter scegliere entrambe è probabilmente ancora meno plausibile.

Insomma, che cosa significa la manovra della Fed?  Ascoltando la conferenza stampa di Bernanke di ieri sera sono stato colpito dal fatto che questo cambiamento di rotta della stessa Fed, passata dalla politica di “nessun aumento fino al 2015” a un’attenzione ai target numerici di inflazione e disoccupazione, possa effettivamente essere interpretato come un potenziale INASPRIMENTO della politica monetaria.  Dopotutto, siamo molto ottimisti sul settore immobiliare USA  come motore di crescita per il 2013 e il 2014, per cui, se tutto andrà per il meglio, la Fed potrebbe aumentare i tassi prima del 2015.

Per i vari motivi di cui sopra sono convinto che sia in atto un cambiamento di regime nelle banche centrali, ma credo valga la pena di elencare brevemente gli elementi a supporto della mia tesi.  Eccoli in sintesi.

  1. Il livello dei tassi reali fissati dalle banche centrali: la prova più evidente è quella che si evince dallo stesso grafico.  Le banche centrali raggiungono i target d’inflazione?  Direi di no – negli ultimi 5 anni, ad esempio, la Banca d’Inghilterra ha mantenuto l’indice dei prezzi al consumo al di sotto del target del 2% solo per 6 mesi, mentre per gran parte del periodo in esame il CPI ha raggiunto il 3% (superando a un certo punto persino il 5%!).  Stando ai dati più recenti, Regno Unito, Eurozona e USA registrano tutti tassi reali negativi pari almeno al -1,75%.  Le banche centrali occidentali stanno persino considerando l’ipotesi di fissare tassi d’interesse NOMINALI negativi.  Fra le grandi economie, in questo momento solo il Giappone ha tassi reali positivi, anche se a nostro parere la situazione potrebbe subire un drastico cambiamento, come spiegheremo di seguito.
  2. Il nuovo orientamento degli USA su un duplice mandato: dopo trent’anni di inflation targeting, da circa un anno a questa parte la Fed ha un nuovo obiettivo.  Il primo a ventilare il concetto di target di disoccupazione è stato Charles Evans, della Fed di Chicago, seguito da Janet Yellan (probabile successore di Bernanke) della Fed di San Francisco, fino alle dichiarazioni di ieri sera.  Per Bernanke è stato come sfondare una porta aperta, considerando che nella sua precedente carriera accademica aveva scritto quanto segue: date un occhio al prossimo punto.
  3. Target d’inflazione del 4% proposto da Bernanke per il Giappone: nel documento intitolato “La politica monetaria giapponese: un caso di paralisi auto-indotta”, scritto a Princeton nel 1999, Bernanke ipotizzava un obiettivo di inflazione tra il 3% e il 4% come soluzione per l’economia giapponese, colpita dallo scoppio di una bolla immobiliare, con un settore bancario in crisi, una crescita debole e pressioni deflazionistiche.  Un quadro simile a quello degli USA oggi: per quale motivo, quindi, Bernanke non dovrebbe considerarla una strada giusta anche per la Fed?
  4. La posizione più accomodante di Mervyn King rispetto al target d’inflazione: sono convinto che i fatti contino più delle parole, e l’assenza di un effettivo inflation targeting nel Regno Unito  negli ultimi  5 anni parla da sé, ma non avevo mai sentito il Governatore esprimersi con toni così accomodanti. Nel discorso tenuto in ottobre, dal titolo “Vent’anni di inflation targeting ”, King ha affermato: “in alcune circostanze può essere opportuno abbandonare temporaneamente il target d’inflazione al fine di attenuare il rischio di una crisi finanziaria”.
  5. Il nuovo Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney parla di un nuovo regime che ha come obiettivo il PIL nominale anziché solo l’inflazione: nel discorso tenuto questa settimana alla CFA Society of Toronto, Carney (che assumerà il comando della BoE l’anno prossimo) ha suggerito che quando i tassi di riferimento si avvicinano allo 0% (il cosiddetto “zero bound”), potrebbe essere più efficace puntare alla crescita nominale che ai tassi d’inflazione.   Carney è stato forse il primo responsabile di una banca centrale a utilizzare l’espressione “cambio di regime”.  “Quando si sceglie come target il PIL nominale, non è possibile mettere una pietra sopra al passato e la banca centrale è obbligata a recuperare quanto non ha fatto in passato”.   Naturalmente, puntare al PIL nominale è anche un sistema molto efficace per ridurre i livelli di indebitamento dell’economia.
  6. Il cambio di regime del Giappone, il cosiddetto “Abe Trade”: questo fine settimana il Paese va alle urne e il candidato favorito ad assumere la carica di Primo Ministro è il leader dell’opposizione Shinzo Abe (LDP). Ma il Giappone deve ancora recuperare il crollo di qualche decennio fa e Abe intende perseguire aggressivamente la crescita. Con una deflazione dello 0,4% a dispetto del target d’inflazione dell’1% fissato dalla BoJ, Abe vorrebbe che la banca centrale facesse MOLTO di più, ad esempio alzando il target d’inflazione al 2% (o persino al 3%) e facendo tutto il possibile (ulteriori interventi sul piano monetario, allentamento quantitativo) per raggiungere l’obiettivo.  Si tratta di un impegno programmatico che potrebbe attenuarsi in futuro – tuttavia, dopo il recente incontro con un membro della BoJ a Tokyo, ho la sensazione che un aumento del target d’inflazione del Paese sia inevitabile.
  7. Europa: è più difficile riscontrare prove evidenti. Tuttavia, dopo le dimissioni – nel 2011 – di due falchi come i tedeschi Axel Weber e Juergen Stark (“È noto a tutti che non sono un convinto fautore di questi acquisti (di bond)” – Stark), la BCE ha mostrato una maggiore apertura all’ espansione del bilancio (LTRO, SMP, OMT).  E forse anche a un allentamento quantitativo più “tradizionale” tra qualche tempo.

Insomma, a fronte di tutti questi elementi che dimostrano come le autorità abbiano cambiato il loro modo di pensare, e di agire, sull’inflazione, ci si aspetterebbe una reazione negativa da parte dei mercati obbligazionari, giusto? Se Bernanke considera il 4% un livello d’inflazione adeguato per gli USA, sareste disposti a prestare il vostro denaro al governo per i prossimi 5 anni a un tasso dello 0,65%?  Inoltre, con l’avvento di Mark Carney alla presidenza della BoE il prossimo anno, è ipotizzabile che anche i tassi di inflazione breakeven (ossia le previsioni d’inflazione del mercato), superino il target d’inflazione  del 2% nei prossimi anni?  Attualmente i rendimenti dei titoli del Tesoro quinquennali sono ancora inferiori all’1% (grazie anche agli acquisti di titoli annunciati ieri sera nell’ambito del QE) e il tasso di inflazione breakeven britannico in base all’indice CPI è nettamente inferiore al target d’inflazione del 2%.  In entrambi i casi, si ha la sensazione che gli interventi statali in questi mercati (repressione finanziaria attraverso il QE, requisiti patrimoniali ecc.) manterranno bassi i rendimenti anche a fronte di tassi d’inflazione elevati.  Si tratta, peraltro, di un’assoluta necessità – con il 50% del mercato dei Treasury in scadenza nei prossimi 3 anni o giù di lì, se i rendimenti dovessero crescere, i governi occidentali, il cui livello di solvibilità è comunque marginale, sarebbero presto condannati al fallimento.

Il valore e il reddito degli asset del fondo potrebbero diminuire così come aumentare, determinando movimenti al rialzo o al ribasso del valore dell’investimento. Possibile che non si riesca a recuperare l’importo iniziale investito. Le performance passate non sono indicative dei risultati futuri.

Jim Leaviss

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