Il contenuto di questo sito web è concepito ad uso esclusivo di investitori qualificati e deve essere condiviso in maniera appropriata.
Logo of Italian
27/04/24

Due anni e mezzo fa, sul mercato c’era il timore concreto che l’euro non sarebbe sopravvissuto. Sembrava che la Grecia non sarebbe riuscita a rimanere nell’Eurozona e che alcune delle maggiori economie in difficoltà, come l’Italia e la Spagna, fossero destinate a seguirla. Gli alti livelli di debito pubblico e disoccupazione e un sistema bancario scricchiolante sotto una tale pressione non facevano ben sperare per il futuro. La sola ipotesi dell’uscita di uno Stato membro dall’Eurozona aveva generato una fortissima volatilità sui mercati finanziari, dai titoli governativi a quelli azionari, lasciando gli investitori alle prese con le conseguenze di una tale eventualità.

Chiaramente, le previsioni pessimistiche sull’Europa non si sono avverate. La percezione è radicalmente cambiata, dai giorni bui della crisi dell’euro. Politici e banchieri centrali hanno dimostrato una grande determinazione a salvaguardare l’euro, pur intervenendo spesso solo nei momenti di crisi più nera. Sui mercati la fiducia è tornata dopo il famoso “faremo tutto il necessario” pronunciato dal presidente della BCE, Mario Draghi, che ha avuto un effetto reale sui rendimenti dei titoli di Stato, con il collasso degli spread rispetto ai bund tedeschi in tutta l’Eurozona.

Sfortunatamente per i detentori di obbligazioni governative europee, l’Eurozona potrebbe tornare ad essere una fonte di rischio. Il motivo è che dal 2011 i fondamentali economici e delle finanze pubbliche in Europa generalmente sono peggiorati, non migliorati.

ADoyle_2014-02 blog_IT

Osservando la tabella qui sopra, che riflette gli indicatori dei fondamentali come investimenti totali, tasso di disoccupazione e livelli lordi di debito pubblico in rapporto al PIL a partire dal 2011, confrontando i dati con la situazione odierna, vediamo molto più rosso (deterioramento) che verde (miglioramento). Eppure, sorprendentemente, a parte la Germania e i Paesi Bassi, che hanno visto un leggero incremento dei rendimenti sui rispettivi titoli di Stato decennali, in tutti gli altri Paesi europei i tassi sono scesi. Non è ciò che ci aspetteremmo di vedere, considerando che i vari indicatori, come il PIL, il tasso di disoccupazione, il divario di produzione e il rapporto debito/PIL, sono peggiorati rispetto al culmine della crisi dell’Eurozona.

Vedo tre motivi principali per cui i rendimenti sono scesi in tutta l’area dell’euro, nonostante il deterioramento dei dati economici. Prima di tutto, la fiducia è tornata e il premio al rischio di credito richiesto dagli investitori obbligazionari è diminuito. Chi investe in obbligazioni europee ora crede che il rischio di default sia molto inferiore rispetto ai giorni bui del 2011, nonostante un peggioramento generale delle condizioni che implicherebbe un rischio di inadempienza più alto, e non più basso. Quando Draghi ha detto che la BCE avrebbe fatto “tutto il necessario”, il mercato gli ha creduto.

In secondo luogo, il premio al rischio di inflazione che gli investitori esigono è crollato insieme all’inflazione dell’Eurozona. La bassa inflazione nell’area dell’euro deriva in larga misura dalla dolorosa svalutazione interna, dall’alta disoccupazione e dal regime di austerità adottato dai governi. A risentirne di più sono i Paesi come l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia, che hanno sperimentato la deflazione negli ultimi due anni circa.  Come vediamo nella tabella, l’austerità ha determinato un miglioramento dei deficit pubblici in tutta l’Eurozona, ma questo ha generato anche forze deflazionistiche che si stanno accentuando. Un’inflazione più bassa in Europa implica rendimenti reali più alti e anche da questo dipende il fatto che i rendimenti reali sono crollati o rimasti a livelli modesti sui mercati obbligazionari dell’Eurozona. Tuttavia, il pericolo per la periferia è che l’inflazione più bassa implica tassi di crescita nominale inferiori, da cui derivano pressioni ancora maggiori sull’enorme fardello di debito pubblico dell’Eurozona periferica. I mercati dovrebbero reagire ai tassi di crescita nominale più bassi mettendo in dubbio la solvibilità di questi Paesi e quindi spingendo i rendimenti obbligazionari verso l’alto.

Il terzo motivo all’origine della convergenza dei rendimenti periferici è la presenza di segnali concreti di riequilibrio, come testimoniano il miglioramento dei saldi delle partite correnti e il calo dei costi del lavoro per unità di prodotto. Le partite correnti oggi sono in attivo nella maggior parte delle nazioni dell’Eurozona, inclusi Spagna, Portogallo e Irlanda. A dispetto del tasso di cambio unico, che è indubbiamente troppo alto per questi Paesi, la competitività globale è migliorata e le esportazioni sono aumentate.

Ci sono buoni motivi per cui l’euro sopravviverà. Tuttavia, è importante chiedersi se il mercato stia chiedendo un premio al rischio di credito sufficientemente elevato, alla luce delle difficoltà con cui l’Eurozona continua a fare i conti. Gli investitori obbligazionari devono essere sempre più consapevoli anche dei rischi di deflazione in Europa. Al momento i mercati dei titoli di Stato scontano senza dubbio molte notizie positive e, da parte nostra, siamo ancora restii a concedere credito a quei Paesi europei che mostrano una situazione finanziaria più debole, a questo punto del ciclo. Il Fondo monetario internazionale ha rilevato di recente che “non è dimostrato che esista una particolare soglia di debito oltre la quale le prospettive di crescita a medio termine risultano compromesse in misura significativa”; ciò suggerisce che per gli investitori obbligazionari, ci siano molti altri fattori più importanti da considerare, al di là del rapporto debito/PIL (come la crescita del credito, il mercato del lavoro e l’inflazione). I rapporti debito pubblico/PIL, su cui si è concentrata l’attenzione degli investitori fin dalla crisi finanziaria, in realtà rappresentano uno strumento di valutazione pigra e parziale dei rischi esistenti sui mercati dei titoli di Stato.

Attualmente serpeggia nell’economia una grande paura della deflazione. È una paura che poggia essenzialmente sui tre pilastri seguenti.

Primo, che la deflazione possa indurre i consumatori a rinviare gli acquisti di beni e servizi, perché domani costeranno meno di oggi. Secondo, che il debito diventerà insostenibile per i mutuatari in quanto non sarà “sgonfiato” dall’inflazione e questo provocherà inadempienze, recessione e ulteriore deflazione. E per finire, che la politica monetaria non sarà più efficace dato che i tassi d’interesse ormai sono vicinissimo allo zero, e anche questo provocherà una spirale deflazionistica.

Il primo punto è un esempio di teoria economica che non si traduce in pratica economica. Le persone non decidono con pura razionalità quando acquistare beni discrezionali. Ad esempio, assumeranno prestiti a tassi di interesse elevati per consumare oggi beni che potrebbero consumare più tardi a un prezzo inferiore. Peraltro vediamo tutti che le persone acquistano costantemente beni di consumo voluttuari destinati ad essere più economici e di qualità superiore in futuro (ad esempio, computer, telefoni e televisori). Per questo la tesi secondo cui la deflazione blocca gli acquisti non regge nel mondo reale.

Anche il secondo punto sul destino di fallimento dei mutuatari è sbagliato. Abbiamo avuto un lunghissimo periodo di disinflazione nel G7 negli ultimi trent’anni, a causa dei progressi tecnologici e della globalizzazione. Eppure sia i singoli che le imprese hanno tenuto fede agli impegni, nonostante i profitti futuri deludenti a causa di un’inflazione inferiore alle attese.

Il terzo punto, secondo cui la politica monetaria diventa un’arma spuntata con l’inflazione negativa, è più difficile da analizzare, dato che esistono pochi esempi recenti nel mondo reale. In un mondo deflazionistico, i tassi d’interesse reali probabilmente saranno positivi, il che limiterebbe gli effetti stimolativi della politica monetaria. Questo è un problema, dato che la politica monetaria perde la sua carica di efficacia sia quando i tassi sono a zero, sia quando l’inflazione è molto alta. Raggiungere un obiettivo di inflazione specifico (in genere il 2%) diventa così molto più difficile.

Cosa dovrebbe fare la banca centrale di fronte a una deflazione naturalmente bassa, forse dovuta al progresso tecnologico e alla globalizzazione? Una risposta potrebbe essere prevenirla con una politica monetaria molto espansiva per evitare che l’economia scivoli nella deflazione, che equivale a un tentativo della banca centrale di spingere la crescita del PIL verso l’alto dalla linea tendenziale per raggiungere l’obiettivo di inflazione. Le conseguenze di questa politica monetaria espansiva potrebbero includere un forte incremento degli investimenti o un mercato del lavoro eccessivamente teso (ossia, con più posti di lavoro rispetto al numero di lavoratori in cerca di occupazione). Una politica di questo tipo comporterebbe dei pericoli in sé, come abbiamo visto dopo il 2001. I tassi d’interesse troppo bassi hanno contribuito a gonfiare una bolla del credito poi esplosa nel 2008.

Sono necessari adeguamenti reciproci fra i livelli di prezzo che consentano al mercato di spostare risorse, innovare e tentare di distribuire lavoro e capitali in modo efficiente. Siamo abituati a vedere situazioni simili in un ambiente di inflazione positiva. Se si genera una deflazione naturalmente buona, forse le autorità dovrebbero accogliere con favore un mondo di inflazione azzerata o di deflazione, se associato a una crescita economica accettabile. Le banche centrali devono tenere conto delle tendenze inflative e deflative nel mondo reale, che non sono un fenomeno monetario, e definire le politiche intorno a questo aspetto. I banchieri centrali dovrebbero affrontare l’ipotesi di un’inflazione al di sotto dell’obiettivo con la stessa calma con cui affrontano i casi di sforamento di questa soglia.

In alcune circostanze, le banche centrali dovrebbero essere pronte a consentire la deflazione: ad esempio in un ambiente caratterizzato da un livello di prezzi naturalmente in deflazione associato a una crescita economica accettabile. Accettando la deflazione, le banche centrali possono generare un esito economico più stabile ed efficiente, in un’ottica di lungo periodo.

Mese: Febbraio 2014

Resta aggiornato con il blog Bond Vigilantes

Registrati