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26/04/24

Il 22 dicembre dell’anno scorso, il presidente Trump ha raggiunto il traguardo forse più significativo dall’inizio del suo mandato, mettendo la firma sul Tax Cuts & Jobs Act del 2017. Valutare esattamente le implicazioni del nuovo regime fiscale può essere terribilmente difficile, a causa dell’estrema complessità della legislazione e delle misure di pianificazione fiscale delle singole società. Tuttavia, a grandi linee, credo che le imprese statunitensi beneficeranno di imposte sui redditi domestici nettamente inferiori e di una riduzione anche più marcata dei costi associati all’eventuale rimpatrio dei profitti generati all’estero, attualmente detenuti offshore, il cui volume stimato si aggira intorno ai 3000 miliardi di dollari.

Su questo fronte, le più avvantaggiate saranno le aziende tecnologiche e farmaceutiche internazionali che producono alti livelli di liquidità, che con le nuove regole si vedranno addebitare un’imposta di appena il 15,5% a fronte del precedente 35%. Per fare un esempio, la sola Apple possiede liquidità lorda e titoli all’estero per un valore di 252 miliardi di dollari, mentre Johnson & Johnson detiene 41 miliardi di dollari al di fuori degli Stati Uniti. Tuttavia, questo articolo si concentra sull’impatto delle modifiche fiscali sugli utili e i flussi di cassa del settore statunitense di telecomunicazioni e cavo, fortemente orientato al mercato interno.

La riduzione dell’onere impositivo domestico deriverà principalmente dal taglio dell’aliquota sui redditi societari dal 35% al 21% su base permanente, cui si aggiungerà l’aumento della deducibilità fiscale degli investimenti in beni materiali (il cosiddetto “bonus ammortamento”), dal 50% al 100% del costo totale fino al 2022 con successiva riduzione del 20% per anno fino al 2027. Queste misure saranno bilanciate dalle restrizioni sulla deducibilità degli interessi a fronte delle imposte (solo il 30% del reddito imponibile) e sulla compensazione delle perdite di gestione accumulate (80% su base perpetua contro il precedente 100% con un limite di 20 anni), ma a mio avviso gli sgravi sono ampiamente superiori.

I principali beneficiari di questo nuovo regime fiscale saranno le grandi aziende di telecomunicazioni e cavo di categoria investment grade, che attualmente pagano le imposte quasi sempre all’aliquota piena del 35% ed effettuano ogni anno investimenti rilevanti in infrastrutture. Nello specifico, vediamo Verizon, AT&T e Comcast come le più favorite, in base ai rispettivi oneri fiscali a fine esercizio 2016 ($ 6 mld, $ 4 mld e $ 4 mld rispettivamente), che erano previsti in ulteriore aumento dal 2017 per effetto della crescita dei profitti e/o delle acquisizioni. L’effetto positivo del carico fiscale inferiore sui flussi di cassa è stimato intorno ai 3-5 miliardi di dollari per queste società e, anche se mi aspetto che questo importo sarà in gran parte restituito agli azionisti, considero incoraggiante l’incremento significativo del flusso di cassa libero sottostante che potrà essere impiegato per accelerare la riduzione del debito, laddove necessario.

Ci saranno anche società penalizzate da questi cambiamenti, nell’universo telecom e cavo? Direi di no. L’aliquota fiscale ridotta produce benefici minori per gli operatori high yield più indebitati, che pagano già poco o niente, in termini di imposte. Tuttavia, esiste anche un rischio di ribasso limitato per gli scudi fiscali da debito degli operatori high yield, per via degli oneri di interesse in contanti pari o inferiori alla soglia di reddito imponibile del 30% oppure, nel caso delle società che potrebbero superare tale soglia (soprattutto Frontier e le controllate di Altice emittenti credito, Optimum e Suddenlink), l’esistenza di consistenti perdite operative nette accumulate che adesso sono indefinite, a fronte del precedente limite di 20 anni. Pertanto vedo un impatto sostanzialmente nullo sul flusso di cassa libero (FCF) dei fornitori di telecomunicazioni e cavo high yield altamente indebitati.

Nel complesso, sono piuttosto ottimista sulle riforme fiscali di Trump che per i principali operatori del settore dovrebbero comportare un aumento deciso dei flussi di cassa liberi, mentre i soggetti più indebitati corrono scarsi rischi di perdere gli scudi fiscali esistenti per le perdite operative e gli interessi. Si prospetta quindi un felice anno nuovo in termini di imposte, per le società statunitensi di telecomunicazioni e media, grazie al regalo di Natale di Babbo Trump.

Ospitiamo un contributo di Simon Duff (analista nel team di Analisi del credito di M&G)

La settimana scorsa la rete televisiva internazionale Discovery Communications ha annunciato l’acquisizione di Scripps Networks per 15 miliardi di dollari USA. Scripps possiede canali dedicati alla cucina, alla casa e ai viaggi, pertanto si inserisce nella tipologia di canali fattuali, o “non finzionali”, che costituiscono il nucleo dell’offerta Discovery (Discovery, TLC, Animal Planet). Per Discovery, è anche un’occasione per diversificare ulteriormente l’audience, finora in prevalenza maschile, supportando nel contempo, attraverso la propria presenza globale, l’impegno di Scripps per approdare ai mercati internazionali. Quindi cosa c’è che non va in questo accordo? A quanto pare, molte cose, se siete azionisti di Discovery, visto che subito dopo l’annuncio il titolo è crollato del 9%, in scia a una flessione di oltre il 40% registrata da gennaio del 2014.

Il declino del corso azionario è imputabile ai dubbi sull’opportunità di una transazione che ripropone il modello di business delle reti a pagamento con servizi integrati. La causa è la crescente pressione strutturale dovuta al cambiamento delle abitudini di visione dei consumatori, a favore dei pacchetti “snelli” più economici che escludono le reti meno seguite, i servizi on demand cosiddetti “over the top” (OTT) e la visione di contenuti brevi su dispositivi mobili tramite piattaforme come Snapchat e Facebook. A riprova di questo, lo stesso giorno in cui è stato annunciato l’accordo, Discovery ha rivelato che il declino degli abbonamenti ai suoi canali principali negli Stati Uniti ha accelerato il ritmo al 4% nel secondo trimestre del 2017, rispetto al 3% nella prima frazione dell’anno e al 2% nel 2016. Da parte sua, Scripps ha dichiarato un calo continuato degli abbonamenti e ridotto le previsioni di ricavi e profitti per il 2017 alla luce degli indici di ascolto più fiacchi. I timori degli azionisti sono stati ulteriormente accentuati dalla consapevolezza che non avrebbero potuto realisticamente bloccare l’operazione, a causa della posizione dominante degli azionisti di controllo, John Malone e la famiglia Advance-Newhouse.

Quello che mi ha sorpreso di più è stata la reazione dei mercati del credito. La transazione è strutturata in modo favorevole agli azionisti, in quanto le azioni Scripps sono state acquisite in contanti per il 70% (con un aumento del debito di Discovery) e solo per il 30% con emissione di azioni Discovery. Considerando anche il debito di Scripps pari a circa 3 miliardi di dollari che confluirà nel bilancio di Discovery, la leva pro-forma di quest’ultima passerà da 3,3 a 4,8 volte. L’indebitamento di Discovery salirà così a più del doppio, con l’aggiunta di altri 11 miliardi di dollari circa. Certo, Discovery punta a sinergie di costi per 350 milioni di dollari e alla sospensione del programma di riacquisto di azioni per favorire la riduzione del debito post-acquisizione, con l’obiettivo di riportare la leva intorno a 3,0-3,5x. Tutto questo non è comunque di grande conforto, in un mercato afflitto dalle pressioni strutturali di cui si parlava prima, con un emittente di facili entusiasmi sul fronte delle fusioni e acquisizioni. Dunque, come creditori, c’è qualcosa che non dovreste temere? A quanto pare, non molto, secondo le agenzie di rating: sia S&P che Moody’s assegnano a Discovery un merito di credito investment grade fiacco, nei bassi ranghi BBB. La situazione non cambia molto per gli obbligazionisti, che hanno visto movimenti impercettibili degli spread di rischio in scia all’annuncio.

Ma allora, quale reazione riflette meglio la notizia dell’acquisizione di Scripps da parte di Discovery? A nostro avviso, la cautela giudiziosa del mercato azionario è in netto contrasto con l’indifferenza del mercato del credito e delle agenzie di rating. Per le società la lezione è chiara: acquisite asset e crescita sfruttando il credito facile in un ambiente affamato di rendimenti, in cui le agenzie di rating non hanno nulla da obiettare sulle transazioni a leva. Per chi investe nel credito, il messaggio è altrettanto chiaro: attenzione alle fusioni e acquisizioni che aumentano la leva con un premio di spread incrementale limitato sulla nuova emissione, a fronte di un profilo di rischio più alto, e al conforto potenzialmente ingannevole del mancato ampliamento del differenziale rispetto alle obbligazioni esistenti nel vostro portafoglio.

Autore: Guest Author Simon Duff

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